domenica 29 gennaio 2012

La colpa



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La colpa

Autrice: Lorenza Ghinelli
Genere: Drammatico.




Due ragazzi, Martino ed Estefan. Due amici, con un passato traumatico ed inconfessabile alle spalle. Due forme diverse di un alienazione psicologica che trae origine da un fatto traumatico.

La loro frequentazione nel mondo degli adolescenti, a cavallo con la maggiore età, in quel periodo unico fine anni 90, speso fra argomenti tipici della vita di tutti i giorni, con i suoi eccessi nello stile anticonformista e ribelle, nel sesso come nell'amicizia, si mescola con la loro complessa personalità.

Riusciranno a sopravvivere a se stessi, affrontando le loro paure, rimanendo legati, in quella simbiosi dell'amicizia che rassomiglia ad un legame gemellare?

Cosa succederà quando Martino ricorderà il trauma subito, nel sottofondo della musica dei Clash?

Cosa accadrà, quando Estefan incontrerà una bambina di nome Greta, di notte, in una scorribanda, nella sua fattoria?

Questi eventi che reazione scateneranno? E quale pacificazione riserverà la vita alle vittime di una colpevolezza che appartiene al sospetto e all'inerme assenza di reazione?

Ma sopratutto, possiamo noi tutti, in quanto esseri pensanti, degni del libero arbitrio, definirci come colpevoli delle nostre vicende personali? Qual il limite simbiotico tra la vittima ed il carnefice. Dove finisce il rimpianto insito nella sopportazione e comincia il riscatto della personalità?

Dopo “Il divoratore” ritroviamo un esposizione paratattica, nello sviluppo dei pensieri che poggiano su parole il cui ruolo è, concettualmente, incostante: alternato, intermittente, ma pressante come un inguaribile malattia che contagia dalla prima all'ultima pagina.

Le affermazioni diventano schegge egocentriche ed autoritarie, tese a realizzare un effetto domino, attraverso il rafforzamento ripetitivo di singole emozioni che l'Autrice rivisita, muovendo i termini come telecamere sul set di una ripresa cinematografica.

Se la narrazione è sterile, nel suo sviluppo esistenziale, il sentimento clinico che vi si cela dietro, ritorna con pedissequa costanza. Il che associa, da un lato la carica visiva della scrittura creativa, e nel contempo, l'emotività intrinseca al tema introspettivo, che è poi l'oggetto della narrazione, oltre i singoli fatti.

Una psicologia legata ad aspetti sociologici.

Il trauma, come epicentro di un universo sconosciuto, dove la materia oscura annida in ogni angolo e l'uomo impara a coesistervi, nel presupposto di non potervi rinunciare.

La centralità non appartiene alla lotta, come riscatto del sé, bensì alla rinuncia, che rimane ferma, immobile: statica fotografia di un momento eterno, ripetuto con l'ossessione tipica delle sociopatie.

In quest'opera ritroviamo maggiormente la sofisticazione della personalità tipica del motto di Shakespeare nel celebre “essere o non essere”, piuttosto che un argomentato dualismo di Socrate ed Antigone o una contrapposizione logica tra Bacone ed Aristotele.

I protagonisti dell'Autrice vivono un conflitto interiore, simile ad una matrioska, perchè indagando se stessi, quando non si rifugiano nel rifiuto, rivelano altre debolezze, somatizzate nel carattere: una sorta di pregiudizio infinito che devia la strada maestra della vita e porta, di tanto in tanto, la variabile del cammino ad intersecarla nuovamente; perchè il futuro è in movimento e il destino conduce spesso ad una sorta di parallelo.

Potrà sembrare curioso, ma la principale assimilazione che mi sento di poter esprimere, su questa tecnica espositiva e in particolare sul pathos che l'Autrice propone, come una costola d'Adamo di se stessa, è rivolto al testo di una celebre fisica statunitense, Lisa Randall: “Universi paralleli”.

Lo stile emotivo incontra, con la Ghinelli, una particolare metodologia narrativa, sotto certuni aspetti più tipica di alcuni autori del Fumetto. Le sue descrizioni sono frecciate dirette, con meno ambiente e più concetto, rafforzato utilizzando luoghi comuni quali marchi, artefatti, richiami ad altri sensi dominanti, come il gusto o l'udito, attraverso cioé immagini viventi, e musiche orecchiabili con la mente.

A momenti, quando eccede in questo virtuosismo narrativo, la visione diventa underground, e rassomiglia ad una via di mezzo fra un videoclip ed un cartone animato anticonformista, di quelli che alcuni definiscono “per adulti”. Questo aspetto può avere l'effetto positivo di fidelizzare alcuni lettori al suo stile, ma corre anche il rischio di allontanare chi preferisce un diverso standard.

L'emotività che la scrittrice descrive, aiuta il lettore a calarsi nei panni dell'ambiente circostante e degli eventi, attraverso aneddoti di realismo puro: minimalisti come sono i dettagli, particolareggiati da quei gesti che, così consueti, donano un peso specifico notevole, alla già visiva immagine che si rinviene dalla lettura.

Per questo, quanto l'Autrice calca la mano su determinate scene, corre il rischio di urtare la sensibilità di quanti leggono. Specialmente su tematiche ad alto impatto emotivo, che possono disturbare il lettore, in quanto egli, a differenza dello spettatore, è più coinvolto dall'immediatezza del veicolo scritto, meno cinematografico, e lavora sempre di fantasia.

Del resto, non è necessario esagerare per stupire, e non sempre lo stupore rivela poi un gusto piacevole; a volte si smarrisce nel vortice delle tematiche sopra le righe, un pò come i versetti di una canzone rap che si trascina perdendosi nel mentre.

Il codice sorgente dell'indagine introspettiva comportamentale di questo scritto è un armata di numeri binari che diventano anarchici irresponsabili, schiavi della loro immacolata perfezione. Si divertono a non spiegare, pur rivelando la loro natura, come il gatto che si tiene a debita distanza: così vicino eppure, nella sua inviolabilità, così lontano.

Ciò accade perchè in buona sostanza, non sfugge all'occhio più attento come gli eventi narrati, intesi nella loro unicità, per quanto ben elaborati ed esposti appartengono anche a dei cliché già ampiamente noti e conosciuti, nella letteratura, cinema, televisione, fumetti. Sterilizzati dal contorno, sono assai poco originali.

Il risultato è che il lettore, sarà condotto per mano da un Virgilio che non gli permette di vedere ciò che vuole dell'Inferno.

E questo ritengo sia il più grave limite dell'opera, nella sua componente scientifica della metodologia psicodrammatica.

In quest'ottica, alcune tinte forti, che certuni apprezzano, potrebbero non cogliere il gradimento di un pubblico più impressionabile. E non per il contenuto in sé, ma per quell'intrinseca anomalia imponderabile che appartiene all'originalità di tutti noi.





La colpa” è un buon romanzo drammatico, con uno stile narrativo visivo e intelligentemente organizzato. Sicuramente ben scritto anche se dal ritmo meno incalzante e sorprendente rispetto a “Il divoratore”. Paratattico, ottimamente concepito nella dialettica: realistica e immediata. Un testo ambizioso, che affronta argomenti difficili, calandoli nell'alveo (s)conosciuto dello psicodramma.

                                                        Marco Solferini


lunedì 23 gennaio 2012

L'eretico



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L'eretico

Autore: Carlo A. Martigli.
Genere: storico, drammatico, avventura.




L'eretico” è un romanzo storico. Ambientato nel 1497, prevalentemente tra Firenze e Roma, la narrazione si snoda fra due filoni narrativi che si intersecano tra loro.

Da un lato, è la storia di Ferruccio de Mola e del suo amore per Leonora, che lo porta ad intraprendere un avventura, suo malgrado; dovendosi confrontare con un epoca ricca di cambiamenti, fra il sacro ed il profano, entrambi i quali conoscono i loro eccessi, tanto nella Firenze del Savonarola, quanto nella Roma di Papa Alessandro VI, alias Rodrigo Borgia.

L'altra storia è quella di un viaggio che un monaco, insieme ad una sua giovane compagna e allieva, intraprende dalle remote regioni del Tibet fino alla città eterna. Passando attraverso i pittoreschi paesaggi dell'Islam, adombrati dalla contrapposizione tra il Sultano Bayez il giusto e l'ala più estrema, fedele ad una guerra santa che il sovrano avrebbe tradito. Una colpa che deve pagare con la vita.

Nelle parole della giovane monaca c'è il ricordo di una storia: la più grande verità rivelata. Celata fra le pagine di un libro che narra della vita segreta e mai raccontata, di un bambino di nome Gesù, dai suoi 12 fino ai 29 anni. E della sua vita dopo essere sopravvissuto alla morte.

Infine, ella è custode della rivelazione relativa al destino della stirpe. Ancora oggi esistente. In lei c'è un segreto destinato a cambiare le sorti del cammino spirituale del Mondo.

L'Autore, già noto al pubblico per la sua prima opera: “999 l'ultimo custode”, ci ripropone uno scenario storico, molto ben argomentato e spesso minuziosamente esposto, con aneddoti e particolari indubbiamente frutto del connubio tra passione – indagine scientifica.

I protagonisti del romanzo sono tutti personaggi realmente esistiti. La rappresentazione dei quali appartiene, in parte, anche alla mitica visione che di essi è stata tramandata. E' noto infatti che le virtù spesso si perdono o si confondono nella leggenda.

Merita sottolineare che, prevalentemente, la dinamica dei fatti è oggettivamente realizzata con il piglio del trattato espositivo e non creativo, in termini di scrittura, come invece accade in altre opere.

L'Autore preferisce quindi erudire, a tratti istruire il lettore, evitando la mera nozionistica informativa.

In particolare, a mio avviso ciò accade nella parte del romanzo che svolge all'ombra della peste che spopola nelle campagne e terrorizza gli animi. Una tragedia di morte e disperazione che si consuma quasi compressa, schiacciata, circoscritta tra una visione sacra che sembra vacillare, persino in coloro che hanno tutti gli interessi a sostenerla e un ipotesi scientifica ad opera di quei primi scienziati della medicina. Osteggiati da un potere spirituale colpevole della sua volontaria nel condizionare l'ignoranza come strumento di controllo. Cercando quindi di isolare spiegazioni più razionali.

All'ombra di questo conflitto, che segnerà poi i secoli a venire, l'Autore coglie l'opportunità di gettare i semi di un percorso illuminato tra logica e raziocinio.

L'interrogativo che ne nasce è un interessante parallelo, perchè forse tra la spiritualità e la magia ci sono più punti in comune di quanto si sia portati a supporre, ma anche tra l'animo umano e la sua volontà / esigenza di credere. L'Autore ci suggerisce che in entrambi i casi possono esserci legami meno spiegabili con la chimica delle parole, demandati quindi all'intima e introspettiva ricerca della conoscenza.

Esattamente come la figura del celebre Pico dellla Mirandola e del suo intellettuale disegno cosmico di unire le religioni monoteiste sotto l'egida di una ritrovata spiritualità che fungesse da rinnovamento per le coscienze. Verso cioè un “unicum”.

Molto ben strutturato e certamente dotto in termini di sapienza espositiva, “L'eretico” è un romanzo che incontrerà anzitutto il gradimento di coloro che si dilettano amabilmente nella cultura del passato per comprendere le tante antinomie tristi del presente.

Apprezzabile però anche da coloro che hanno un interesse più scientifico, tanto dell'archeologo come del teologo. Per coloro cioè che apprezzano un anamnesi seria e storiografica di una verità che, al di là della spiegazione offerta dall'Autore tramite i personaggi di quest'avventura, rimane un quesito nella mente di tanti: che cosa ha fatto Gesù, in quei 30anni di vita, prima cioè della narrazione evangelica?

A tal proposito tuttavia, corre l'obbligo di precisare che lo stesso Autore ci offre, in calce al romanzo una “dramatis personae” con l'indicazione e la ricostruzione dei personaggi che vengono citati nel corso dell'opera, e in essa c'è la menzione, doverosa, che la teoria della vita di Gesù in India, fu trasportata in occidente, sul finire del 1800 da un personaggio, il russo Nikolai Notovich. Costui, dapprima palesatosi come avventuriero, poi si scoprì essere un uomo legato all'Ochrana, il servizio segreto dello Zar Russo, che si adoperava nella sottile arte della falsificazione storica, essendo, fra gli altri l'ente fautore del celebre falso dei Protocolli dei Savi di Sion.

Inoltre, gli stessi documenti sulla base dei quali lo stesso Notovich redasse la sua opera rivelatoria sulla vita segreta di Gesù, si confermarono dei falsi; volontariamente donatigli dagli stessi Monaci che, secondo lo stesso autore, custodivano il segreto e non si fidarono di lui al punto da affidargli tali confidenze.



L'eretico” è un romanzo storico, consigliato agli amanti della verità narrata e ricostruita con passione, dell'indagine finalizzata a conoscere senza colpevolizzare, cercando l'intima natura della domanda, prima ancora della risposta. Appassionante, colto, drammaticamente coinvolgente, ottimamente strutturato. Regalerà al lettore un intenso affresco di un mondo, sul finire del 1400, che ha indubbiamente cambiato il corso della storia e i cui effetti sono ancora oggi oggetto di un attiva memoria.

Vivamente consigliato

                                                                     Marco Solferini

lunedì 16 gennaio 2012

A che serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca

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A che serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca

Autore: Don Lorenzo Milani.
Genere: attualità.




A che serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca” è un testo che ci ripropone la celebre lettera di Don Milani, ai giudici del 1965 (più altri scritti), quando, in conseguenza della sua presa di posizione sull'obiezione di coscienza, gli fu contestato l'apologia di reato.

La prefazione invece, è un prezioso ed elegante saggio a cura di Roberta de Monticelli che argomenta alcune dei passaggi della corrispondenza di Don Milani, facendo luce e chiarezza su di un paradigma senza tempo, quale del resto sono le riflessioni, che il prete ci offre come spunto per una serie di elucubrazioni, a tratti filosofiche, spesso realistiche.

La filosofia dei classici, unita alla teologia del vangelo, ma anche quella grande cultura personale nazional popolare che per decenni, specialmente nel dopoguerra, ha sostenuto e alimentato le credenze soggettive su cui poggiavano le coscienze.

Don Milani è stato un prete controcorrente, in una comunità montana, lontana dalle grandi città, con problemi pratici quali “cibo e un tetto sopra la testa” per i povere, i precari, i contadini, e i loro figli, quel proletariato che lo Stato spesso sfruttava, anzitutto nella disuguaglianza rispetto ai figli dei ricchi.

Oggi si legge ancora Don Milani e forse è particolarmente importante farlo, perchè quando tratta della Costituzione violata, dei diritti dei più deboli, spesso calpestati in modo innominato, grazie ed attraverso delle congetturali sofisticazioni, archetipi del variopinto animo truffaldino di cui la società moderata è affetta e drammaticamente c'è un riscontro, a distanza di ormai 40 anni dalla sua morte.

Nelle sue lettere ci sono considerazioni di valore.

Sopratutto però, c'è un latente “j'accuse” al potere che coinvolge e castiga solo alcuni, ma non tutti, che nelle sue linee di indirizzo, smarrisce il sentimento liberale di rispetto verso l'uguaglianza figlia delle pari opportunità. Nelle sue parole certamente dotte, malgrado la dimensione territoriale, il lettore riscontra la genuina possanza del convincimento.

L'ingiustizia diventa complice di un osservanza delle regole, che sono però indirizzate e controllate da quest'ultima.

Oggi forse più che mai, meticolosamente schiacciati, noi tutti, dalla società dell'accettazione, che spinge gli individui a rivolgersi con occhio critico, suadente, apparente al presente, e speranzoso al futuro, nascondendoci oltre la nebbia delle bugie e dei silenzi, complici omissivi di un grande assassinio: la morte della ragione.

Don Milani ha difeso la salvaguardia dei piccoli, attraverso i grandi ideali, quelli che spesso si riscontrano nelle parole, ma si smarriscono nei fatti.





A che serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca” è un testo da (ri)scoprire, e sopratutto da commentare con il pensiero, che permette di viaggiare liberi negli spazi della memoria. Una riflessione, che parte da un evento scatenante, quale fu l'obiezione di coscienza, ma prevalentemente investe le antinomie dell'essere umano, la sua doverosa importanza nell'ordine delle cose e la disuguaglianza a danno dei deboli e degli ignoranti.

Consigliato sopratutto ai giovani che non conoscono età perchè si sentono tali finchè conservano la libertà nella mente e nel cuore.

                                                                                        Marco Solferini 




venerdì 13 gennaio 2012

Mare al mattino

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Mare al mattino

Autrice: Margaret Mazzantini
Genere: drammatico, attuale, storico.


Mare al mattino” è la storia di due Bambini e due madri.

Il piccolo Farid è costretto a lasciare la Libia, in uno stato di guerra civile, per via della caduta del Rais.


In fuga da una società macchiata dalla violenza più becera e cieca, dove la povertà sembra una sorta di predestinazione, dalla quale si sfugge, con gli occhi dei Bambini, nell'incontaminato mondo della fantasia.

Non ha mai visto il mare Farid, ma esso è proprio nel mezzo di questa chimerica salvezza, verso le coste dell'Italia: un viaggio allucinante, pietoso, così orribile da essere innominabile, dove le persone vengono disumanizzate, relegate al ruolo di semplice merce. Un viaggio dove la salvezza sembra un miraggio oltre il deserto della sopravvivenza.

Farid lascia la sua terra ed il suo passato, gli odori dei ricordi, il sapore della tradizione: quella naturale bellezza che appartiene alla civiltà di un Popolo, fiero e sovrano.

Dall'altra parte del mare, Vito, figlio di Angelina, impara a conoscere la sua età non più di adolescente; vive i ricordi del passato di sua madre, che appartenne a quegli Italiani di Libia che seguirono i colonizzatori, impiantandosi in una terra dove il gemellaggio della cultura, nacque dalle stagioni del cuore.

Per poi essere spazzato via dalla brutale repressione del Rais, all'epoca un giovane carismatico rivoluzionario.

Un incubo che fece scoprire alla generazione degli onesti, le colpe infami dei padri, figlie della guerra e di tutte le più orribili oscenità che questo iracondo mostro, si è lasciato alle spalle.
Angelina ha lasciato sulle sponde dell'Africa una vita costruita nelle scatole cinesi di un posto che albeggia ogni mattina nella sua memoria e si addormenta con i sogni.

Insieme con un giovane amore, ancora incontaminato dalla dietrologia politica, che avrebbe assorbito una parte del suo cuore, annerendone poi il sangue con l'odio, nero come il petrolio.

Suo figlio Vito, forte del bagaglio tramandatole dalla madre, vede l'incubo ad occhi aperti della follia che ha devastato le Torri Gemelle, e il silenzio solenne della polvere di Ground Zero, dove le vittime perdono il nome e appartengono a tutti gli innocenti che pagano il prezzo più alto dell'odio.

Esattamente come la prima razzia di persone voluta dal Rais di Libia, poco dopo il suo insediamento, fu contro gli ebrei: deportati senza scampo.

E Angelina c'era, molti anni prima, quando scoprì la maestra di scuola piangere dopo l'appello in classe, perchè due giovani alunni, colpevoli solo del proprio retaggio, erano assenti e non sarebbero più tornati. Lasciando dietro di sé banchi vuoti, come tombe monolitiche della ragione che aveva ceduto alla pazzia.

Allo stesso modo, oggi Vito osserva i famigliari delle vittime dell'attentato di N.Y, costretti a riconoscere il volto dei loro cari, dalle immagini televisive di chi, disperatamente, si gettava dalla torre nord, in cerca della salvezza, nel vuoto, per sfuggire alle fiamme.
Il passato e il presente. Un ultimo viaggio, in quel che resta della terra libica, poco prima della caduta del dittatore, quando ormai sembra che l'onda lunga della sua supremazia si stia esaurendo. Un viaggio insieme con sua nonna, nella terra di quand'era bambina, perchè lei, in fondo, è stata araba per 11 anni della sua vita.

In questo viaggio, attraverso un presente che cerca di sconfiggere il mito del passato vissuto negli occhi di una bambina, ritroverà quel che resta della memoria, in un cimitero dove le tombe degli Italiani sono state profanate, e le salme costrette a rientrare in patria.

Tuttavia, le vittime non conoscono nazionalità e la sofferenza appartiene al sangue di coloro che subiscono gli effetti nefasti del conflitto.

Appartiene a lei e al padre di Farid, un antennista ucciso dai fedeli del Rais, senza motivo.

E' un lungo filo d'Arianna, nel mezzo del quale c'è il mare, che separa i Popoli, ma non le coscienze.

L'Autrice è più che brava, è perfetta nelle descrizioni degli ambienti e degli umori.

Utilizza in modo sapiente, cordiale e straordinariamente persuasivo, la creatività esplicativa delle metafore, l'infinita grandezza delle allegorie, la placidità ossessiva dei sinonimi e dei contrari.

Le sue parole fuoriescono dalle pagine, prendono vita e disegnano frasi intense, bellissime, a tratti sganciate dall'argomento in sé: paralleli di una realtà dove la vita e il sogno si fondono, come lo sguardo di un Bambino posto di fronte all'esigenza di crescere.

Similitudini di completezza per argomenti narrativi sviscerati in nome dell'eccellenza poetica.

Il lettore resterà ammaliato e coinvolto, colpito, affranto, si sentirà solo in balia delle pagine, per poi ritrovare se stesso, quando il testo smetterà di raccontare di sé e passerà la mano alla coscienza di noi tutti, che siamo i protagonisti della vita, della nostra e di chi ci siede accanto.

L'interrogativo di base è la scelta, se appartenere cioé alla rettitudine della consapevolezza scientifica, che annida nella forza dello spirito umano, oppure, cedere all'inutile sentimento della forza figlia dell'ira, che è debolezza di tutto e non lascia niente.

Ho riletto alcuni passaggi di questo straordinario libro e credo che lo fare anche voi, annotando qualche frase nella mia agenda, perchè vorrei ricordarmele nei momenti che contano, quando sono certo che potrò imparare da me stesso.



Mare al mattino” è un opera straordinaria, che riesce ad amalgamare l'arte con la poesia, le immagini con le parole. Un testo scritto con superba bravura ed umiltà narrativa. Intenso, passionale, visivo, coinvolgente: trasporterà la coscienza del lettore in un appassionante vortice narrativo, fra presente e passato.

                                                                                 Marco Solferini






lunedì 9 gennaio 2012

I funeracconti

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I funeracconti

Autore: Benedetta Palmieri
Genere: Narrativa




I funeracconti”, sono una raccolta di 10 storie, accomunate dal denominatore del “trapasso”, inteso come morte dell'essere e apertura del funerale, quale primo atto dell'immediato aldilà.

Espongono una serie di prospettive e punti vista, attraverso la riflessione postuma, orchestrando situazioni, circostanze e personaggi vari.

Sullo sfondo, come “train d'union” fra i singoli racconti, ci sono le riflessioni di un uomo che ha perso la moglie e rivisita la propria esistenza in ragione della futura, inevitabile, morte.

L'Autrice, utilizzando un linguaggio espositivo gradevole, cordiale e affascinante nella sua compiuta corrispondenza emotiva, sintetizza delle realistiche credenze popolari, ai limiti del passionale, tramutandole in stereotipi, a tratti irrazionali, o estremizzati al punto da rappresentare l'opposto che tocca l'esatto contrario.

Tali paradossi, sembrano quasi giustificarsi nel sentirsi obbligati a diventare parte integrante di una verità metafisica; assurgendo ad una vita propria, anche se questa nasce dopo la fine di quella fisica.

Muovendosi cioè, nella mezzaria del “tutto esaurito” perchè ogni cosa si è inevitabilmente compiuta, e nella canonica credenza che, anche l'interruzione, trova sostanziale manipolazione definitiva nella morte.

La capacità della mietitrice, di mettere a posto ogni singolo tassello e proseguire con un “tutto scorre”, degno del miglior Eraclito.

Tuttavia, questa metodologia non coglie nel segno ed il lettore può rimanere smarrito, anzitutto dall'apprendere che, contrariamente da quello che una bellissima copertina può suggerire, i racconti non sono ironici.

A tratti infatti, decadono al limite nell'umorismo nero. In verità, non sempre facile da cogliere; strappando qualche riflessione amara, frutto dell'esistenzialismo che fa da sfondo ad un argomento la cui sofisticazione non annida, nella comprensione, contrapposta all'inevitabile accettazione.

Ed ecco quindi che, in questo dualismo, la centralità del funerale diventa, in realtà, assai vaga, perchè l'Autrice narra più che altro della morte, e della vita di coloro che rimangono o di chi non c'è più, ma è questo un concetto di assenza che smaterializza la tenacità dell'attaccamento, cercando di razionalizzarlo, dietro all'esigenza di un abbandono, che nell'ottica dei racconti non è il male peggiore.

Dimenticare è un oblio gentile, come se l'annegamento tutto sommato possa essere una morte piacevole: addormentandosi nell'immensità di un mare che alterna calma e tempesta, mistero e rivelazione.

Poche sono le metafore presenti nel romanzo, che resta ancorato ad una visione carismatica della morte: ineluttabile, ma fascinosa, nella sua estrosa variopinta serie di possibili evoluzioni.

Fino ad arrivare all'affermazione ultima che una vita in ragione della fine, non è un esistenza, bensì una rinuncia, inutile quanto irrealizzabile.

I temi di fondo del romanzo quindi, sono spesso già noti al grande pubblico.

Anche taluni personaggi sono già stati visitati da Autori della carta stampata, del fumetto, e della fiction.

Manca pertanto, quel tasso innovatore che avrebbe consentito, data l'assenza di un umorismo da commedia, di recuperare quella sorta di ripetitività ossessiva dei concetti di fondo, che sono anche il punto di vista imperioso e a tratti egocentrico, dell'Autrice, la quale tralascia evidentemente di considerare come il lettore potrebbe non solo identificarcisi poco, ma anche trovare opprimente l'assenza di un margine di manovra che il testo non offre.

Il lettore infatti, è ingabbiato in racconti che decollano solo a tratti, prevalentemente in alcune descrizioni, obiettivamente esaltanti, ma limitate solo a singole frasi o trafiletti.

La sensazione è che una scrittrice con ottime potenzialità abbia (in)seguito un idea, ottenendo un risultato anonimo, ben potendo tuttavia, in futuro, rivolgere la propria attenzione ad un altro genere narrativo che potrebbe premiarla enormemente, eventualmente cambiando alcune impostazioni di scrittura creativa, rinunciando a delle ripetizioni, anche compulsive e rafforzative.





I funeracconti” sono un occasione mancata, apprezzabile solo a tratti, e limitatamente ad alcuni archetipi narrativi e artefatti descrittivi di una contemporaneità, rivisitata in chiave minimalista ed esistenzialista. Al limite condivisibile da quanti abbiano una filosofia di vita più eticamente rivolta alle dottrine orientali non materialiste e scarsamente religiose.

                                                                       Marco Solferini