lunedì 18 febbraio 2013

Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz


Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz

"E' anche preoccupato per lei, è evidente. In modo esagerato, forse. Stai attenta quando vai in bicicletta e quando fai il bagno, le scrive, come se fosse una bambina. Sono stati insieme ininterrottamente per circa un anno, dopo che per quasi due anni sono stati ininterrottamente separati, se così si può dire. Già, “separati” forse non è l'espressione giusta, visto che il posto in cui è successo era la rampa di selezione di Auschwitz-Birkenau."

Autore: Goran Rosenberg
Genere: drammatico, storico, biografico.

In via del tutto preliminare mi è impossibile non soffermarsi sul significato che ha avuto il nazismo, malgrado sia un tema già molto affrontato e di cui oggi, sentiamo come esseri umani, fratelli di scienza e conoscenza, l'importante peso della memoria.

Tramandare la quale significa, anzitutto, fare di umiltà virtù, amare il silenzio delle idee quale atto di penitenza verso coloro che di queste stesse idee sono stati privati nel modo peggiore immaginabile.

Il nazismo è stato un sopruso.

Un abominevole atto omicidiario della ragione.

Ha spento la coscienza di un enorme numero di persone. Come un immensa rete elettrica che interrompe la corrente.

Ha giustificato l'eccesso.

Non condivido quanto affermato da alcuni Autori relativamente al fatto che il nazismo abbia assunto le proporzioni totalitarie che rifiutavano il confronto, cioè il dialogo.

In verità, sono convinto che sopratutto nella prima fase, quella della sua ascesa il confronto dialettico fosse irrinunciabile, perché da esso il nazismo ha tratto legittimazione. Ovviamente, la storpiatura era tale da accogliere il dibattito e nel contempo autoreferenziarsi al punto da dichiararsi al di sopra di esso.

La finzione stava nell'essere portatore sano di una verità così innovativa da poter vincere le critiche. Una superiorità che traeva legittimazione da una conoscenza che, se non condivisa, comportava l'esclusione. In ciò penso si possano esattamente estrapolare quegli elementi evolutivi della razza maggiore, poi meglio capitanati dai gerarchi delle varie fasi del nazismo.

Inizialmente però era questo rifiuto che paradossalmente sembrava un apertura verso tutti ad aver catturato l'attenzione delle masse e fatto breccia nel malcontento popolare, assai diffuso all'epoca.

L'identificazione dell'avversario come di un nemico e successivamente come il responsabile del malessere stesso è stato alla base del secondo veicolo: l'odio.

Sarebbe fin troppo facile riscontrare analogie moderne, tanto nella politica quanto nella società civile. Non sempre tuttavia ad esclusivo appannaggio di una maggioranza contro una minoranza, a volte anche nell'esatto opposto. L'arte di plagiare con la condiscendenza opera su di un livello inconscio del convincimento e come tale si presta alle più argillose mistificazioni.

Il nazismo ha spento la ragione.

L'olocausto è stato un atto di follia.

La barbarie più atroce perchè drammaticamente frutto di una mente elaborata, preparata, organizzata. La riflessione definitivamente unilaterale, monopolistica di ogni altra eccezione che ha annullato sul nascere qualunque forma di dissenso.

Sono convinto che il Popolo tedesco, nella sua più vasta maggioranza sia stato volontariamente carnefice, avendo accettato e perpetrato non solo nelle parole, come nelle azioni, ma anche tramite le omissioni, il genocidio.

Come un epidemia pestilenziale il nazismo ha distrutto l'umano senso civile.

In questo c'è un originalità orrenda che si è legata con altre storiche persecuzioni. Ben inteso, in quello stesso periodo anche il Giappone ha compiuto atti atroci e abominevoli in Cina, nei territori occupati. Gesta inenarrabili per la loro crudeltà, ma la Germania nazista cercò di impostare uno «status quo», una disciplina della repressione, agganciandola ad una società che avrebbe dovuto far progredire nel tempo la civiltà, contemplando al suo interno lo sterminio e la persecuzione.

Per meglio comprendere questo bellissimo e poetico romanzo, nella sua armonia esistenziale, dobbiamo partire dalla consapevolezza ritrovata di quanto l'odio avesse lacerato il tessuto storico contemporaneo di quel tempo.

Dallo studio della storia traiamo l'insegnamento che il limbo dietro il quale si nasconde la vita è la verità meno appariscente. Il pudico senso della vergogna dopo che il divoratore ha terminato il fiero banchetto.

Ricostruiamo dopo essere morti...

Il romanzo comincia una sera d'agosto del 1947 quando in un Posto come tanti, lungo il tragitto di una ferrovia il cui treno proviene da Auschiwitz, un giovane uomo scende dalla sua carrozza e in quel luogo deciderà di mettere radici.

Una sosta. Una vita che riprende da dove si era fermata. Molto tempo fa. Un immagine quella del tempo che si dilata nella memoria ben oltre il confine dei giorni, dei mesi e degli anni.

Quell'uomo è un sopravvissuto. Ha vissuto l'ascesa della più feroce macchina di morte: il nazismo.

Dalle prime repressioni al ghetto, poi la deportazione in uno dei luoghi simbolo dello sterminio: Auschwitz.

Nella sua storia c''è l'inconcepibile che ha preso forma: l'incredibile realtà omicidiaria, l'annichilimento di un Popolo e il limite delle parole che a distanza di anni non possono imbrigliare gli orrori di un ingiustizia. La macabra evoluzione della quale è sfociata nell'Olocausto.

Il testo è la storia di un padre, ricostruita da suo figlio che muove i passi in quel passato così carico d'angoscia, per cercare di restituirgli una biografia autentica del destino che quell'uomo ha subito, insieme a tanti altri.

Comincia dal giorno del suo arrivo in quel Posto, che ha un nome, certo, come tutti i luoghi, ma che dopo quel che era capitato non aveva veramente importanza. Lo sarebbe stato, importante, dopo, quando la donna che poi sarebbe stata sua madre avrebbe concepito il bambino e lui, quel luogo lo avrebbe posseduto, lo avrebbe fatto suo, come tutti i bambini, nella crescita, nell'apprendimento.

Quando lui era arrivato, quando è sceso da quel treno che lo ha portato da un luogo paragonabile solo alla fine del mondo, alla fine di tutte le cose, aveva solo una valigia, gli abiti che indossava e il desiderio di trovare un impiego, in una fabbrica che offriva lavoro.

E' una vita umile quella che costruisce, raccogliendo i pezzi di quel che ha irrimediabilmente perso. La vita di un uomo che lavora in una fabbrica come la donna che diverrà sua moglie, che passa da una piccolissima casa in subaffitto senza una cucina, ad un monolocale dove poter esibire nuovamente il nome della sua Famiglia. E' la vita di chi scalda il té sulla piastra del ferro da stiro, gioca alle biglie e legge al figlio i libri che l'aiuteranno a crescere. Che riceve i parenti da Israele. Quel che ne resta, dopo il ghetto di Lodz, la deportazione, il campo di concentramento.

Il passato comincia impetuoso e l'Autore ricostruisce la sua storia, guardandola da fuori, interrogandosi su quel che lui, suo padre, ha provato, davanti agli eventi che uno dopo l'altro sono la testimonianza di un immenso sonno della ragione. Un incubo cominciato molto tempo prima.

In questo percorso nei gironi dell'inferno sulla terra conosciamo dal di dentro gli elementi della macchina razzista antisemita.

L'Autore racconta con precisione e metodo il significato della giostra di Krasinski a Varsavia, nella primavera del 1943.

Gli ebrei della Polonia hanno subito una repressione senza ostacoli: brutale, incontaminata da ogni barlume di giustizia. Una lucida e volontaria follia assassina che ha agito alla luce del sole.

Già il 12 dicembre 1942 un milione di ebrei erano deceduti nella sola Polonia, il 22 maggio 1943 erano due milioni e mezzo, ma il dato era difficile da identificare con certezza.

Attraverso le pagine di questo resoconto autentico e ben organizzato, apprendiamo un infinita serie di ingiustizie sociali, come il censimento razzista 1939 nella città di Sodertalje.

Poi c'è il ghetto. Il recinto nel quale sono rinchiusi a soffrire stenti di fame, malattia, sporcizia, dove si muore per nulla e spesso il suicidio dovuto alla follia sembra l'unica via d'uscita.

Il 12 settembre 1942, ben 70.849 abitanti del ghetto di Lodz muoiono nei rimorchi a chiusura stagna dei camion agganciati all'edificio chiamato «il castello» nel piccolo villaggio di nome Chelmno. E oggi purtroppo non molti sanno cosa volesse dire. I camion erano delle camere a gas ambulanti, agganciati alla parete, nei quali venivano fatti entrare gli ebrei, quelli che ufficiosamente venivano «spostati» dal ghetto, camion per 80 - 100 persone. Capienti. Una corsa ogni ora, verso una fossa comune, per scaricare i cadaveri e poi si ricominciava.

Dal diario del ghetto di Josef Zelkowicz si apprende che la maggior parte dei condannati a morte erano anziani, malati e bambini sotto i dieci anni.

Nel 1942 dal ghetto di Varsavia, in due mesi, furono deportati 270.000 ebrei.

Con il passare degli anni la macchina omicidiaria accelera, e i camion non bastano più, per questo ci sono i campi di concentramento. Per arrivare ai quali occorreva un viaggio da incubo su vagoni stipati di persone, carri bestiame dove in molti morivano in piedi.

Poi la rampa d'accesso di Auschwitz - Birkenau e l'Autore è corretto nel affermare che tutto diventava ombra, che tutto ciò che di preoccupante poteva accedere nella vita di un uomo si realizzava.

Il romanzo non tratta solo degli eventi e degli aneddoti, ma spiega gli elementi, anche quelli più irrituali, come le assurdità di un apparenza ingannevole che sembravano predisposte per illudere gli ebrei che non ci fosse la morte ad attenderli. Centinaia di atroci piccoli suggerimenti di una possibilità che andasse oltre la realtà drammatica che li attendeva. Come se questo desiderio di spezzare l'animo umano fosse un ulteriore lascito dell'odio. Una sperimentazione clinica della ferocia, antecedente all'atto liberatorio della morte.

L'Autore racconta di come questa macroscopica opera abbia preso corpo e campo, sotto lo sguardo noncurante e superficiale delle persone. Una tacita accettazione di coloro che sono stati correttamente definiti «i volontari carnefici di Hitler».

«Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz» è un intensa storia d'amore di un figlio per il padre, la cui drammatica lucida esposizione rappresenta un documento irrinunciabile nella «memoria» dei tragici eventi legati alla follia nazista e all'Olocausto.

Educativo, riflessivo, tristemente vero.. consigliato a tutti.

Marco Solferini

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giovedì 7 febbraio 2013

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Autore: Raffaele Cantone – Gianluca di Feo
Genere: attualità, cronaca, mafia.



Il calcio è lo sport più amato dagli Italiani.

Ha raccontato la storia del nostro Paese come pochi altri: delle nostre virtù e dei nostri vizi.

Potrebbe quindi apparire quantomeno scontato che un giuoco che appassiona così tante persone produca un business così ampio che interessa molti individui, enti e associazioni.

Fra questi non potrebbero quindi mancare i malintenzionati, come pure le organizzazioni criminali.

Però, esiste un filo lega gli arrivisti, le meteore del profitto, coloro che cercano i forzieri pieni di monete d'oro: quel comune denominatore è il desiderio di accumulare ricchezza in poco tempo.

Le organizzazioni criminali invece, rappresentano il crocevia odierno della devianza, quell'aspetto (in)civile che nasce dalla storpiatura delle regole, dal mancato riconoscimento in sede di condivisione delle norme, della legge e più in generale dello Stato.

E' forse, paradossalmente, normale che questi due soggetti finiscano per incontrarsi e ciò accade spesso nel campo appassionato del calcio.

Ecco quindi che la «macchina calcio» diventa proprio questo: una sorta di Monopoli degli interessi, un subbuteo dove giocano sia i singoli che le mafie d'Italia.

E questo romanzo ci racconta un pò di storie sul malaffare che «ruota» attorno al mondo del pallone.




Sono vicende d'Italia: drammatiche, scandalose, mortali.

Incontriamo la triste fine del tatuatore di Secondigliano, morto per aver pubblicizzato on line la foto del suo tatuaggio che lo ritraeva con il calciatore Ezequiel Lavezzi

Capitolo dopo capitolo troviamo i legami della Famiglia Capitoni (Boss di Secondigliano) con i LoRusso e le Pizzerie Regina Margherita dell'imprenditore Marco Iorio amico di calciatori come Fabio Cannavaro.

La storia dell'asso brasialiano dell'Avellino, Juary che dal suo presidente fu portato ad omaggiare il Boss Raffaele Cutolo durante il maxiprocesso che lo vedeva imputato e del telecronista della Rai Luigi Necco che, scandalizzato dal fatto in sé, ha pagato con il sangue il suo pubblico dissenso.

E i nomi si moltiplicano, squadre di calcio che piccole, diventano grandi seguendo l'ascesa dei Boss della malavita che ne sono appassionati sostenitori, per poi seguirne anche il declino.

Poi ci sono i «padrini della curva» che comandano i gruppi di tifoseria violenta, con le loro regole.

C'è un giovane morto ammazzato con un colpo di pistola al torace, in quel di Sanremo, si chiamava Giovanni Isolani e dietro a quell'omicidio si nascondeva la storia degli imprenditori DelGratta, della Sanremese e la triste vicenda del calciatore Sosa, soprannominato «El Pampa».

Storie di ambizioni, come quella dell'imprenditore Giuseppe Diana che provò a diventare il patron della Lazio, sottraendola al Presidente Lotito e che per farlo si avvalse di un nome celebre nello scacchiere dal pallone, quel Giorgio Chinaglia, forse troppo ingenuo fuori dai campi di calcio.




«FootBall Clan» è un lungo elenco di nomi associati a storie più o meno note che partono dagli anni 70 e arrivano ai giorni nostri. Per farci riflettere sul tributo di sangue che anche il calcio ha pagato alla malavita e sul tetro rapporto di natura pubblicitaria, promozionale, spesso autoreferenziale che lega la figura del Boss alla squadra del cuore. Per dimostrare una potenza ed una legittimazione che non è solo nel piombo dei proiettili o nelle intimidazioni violente, ma cerca di insinuarsi nella mente, sfruttando ciò che piace, quel che appassiona. Ben oltre il fischio finale dei 90 minuti.

Consigliato.

Marco Solferini
marcosolferini.pubblicazioni@gmail.com
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