martedì 1 ottobre 2013

Stoner

Nota bene:
Il Blog aderisce al programma di affiliazione Amazon
***
Un ringraziamento particolare agli sponsor: 
Libreria - Galleria
IL SECONDO RINASCIMENTO
Via Porta Nova 1/A (ang. via C. Battisti) - Bologna
Il luogo ideale dove trovare i Tuoi Libri
http://www.ilsecondorinascimento.it/
* * *
La rivista culturale: "Il Salotto degli Autori" ( http://www.ilsalottodegliautori.it ) edita dall'Associazione letteraria "Carta e Penna" 
* * *

Stoner

Autore:John Williams.
Genere: drammatico.



William Stoner è un giovanissimo contadino. Un figlio della terra come tanti, che nei primi anni del 900 vive nella fattoria di famiglia dedicandosi ripetitivamente all'attività agricola, insieme con il padre e la madre.

Gente semplice il cui destino sembra un elogio alla predestinazione.

Quando però il padre viene a conoscenza che la vicina Università del Missouri ha da poco introdotto un corso di laurea in agraria decide di iscrivere il figlio che ha appena portato a termine gli studi con risultati discreti.

William verrà ospitato nella famiglia di un parente e dividerà il proprio tempo fra le aule, i libri e l'attività manuale di fattore per mantenersi vitto e alloggio.

Durante il percorso di studi in agraria accade però che il giovane entra in contatto con la materia del Prof. Archer Sloane insegnate di letteratura inglese.

E' un primo contatto ostico, perchè se da un lato William rimane affascinato da questi contenuti letterari dall'altro ne riconosce la difficoltà di apprendimento. Nasce una sorta di innominata quanto reciproca stima con la materia stessa, veicolata dalla caparbietà passionale del giovane che lo porterà a stravolgere il piano di studi.

Di lì a poco dovrà comunicare ai suoi genitori che il proprio futuro si svolgerà nell'Università stessa, ove egli decide di percorrere la strada dell'insegnamento proprio della letteratura inglese.

E sarà nell'ambito delle frequentazioni universitarie che Stoner conoscerà Edith la donna che vorrà sposare, poi Katherine Driscoll la donna di cui si innamorerà, gli amici e colleghi con cui condividerà tutta la vita professionale e anche i suoi antagonisti.

L'Università diventerà il centro della vita di William Stoner, fino alla sua inevitabile morte.

Ambientato tra il 1910 e gli anni 40, il romanzo propone un tema apparentemente privo di fascino alcuno.

Si tratta in buona sostanza di leggere la storia di un uomo che decide di vivere tutto ciò che rimane della sua esistenza, post adolescenza, all'interno dell'Università.

Un professore che da subito sintetizza l'antieroe quanto a volontà di protagonismo. Il cui unico vero interesse è l'insegnamento, concepito quale trasmissione della conoscenza. Alternata solo dalla ricerca scientifica. Finalizzata alla produzione di lavori che siano una sorta di indagine introspettiva ed esplicativa di quegli Autori e di quel periodo storico della letteratura medioevale che per pochi eletti ha molto da condividere con il mondo attuale. E da insegnargli.

Stoner è stato definito un personaggio in balia degli eventi. Durante la lettura del romanzo io l'ho vissuto come una figura a metà tra l'umano senso di appagamento e l'inconsistente apparenza che si trascina, a volte arranca, senza concedersi il lusso di fermarsi. Rimanendo sempre un osservatore ai margini. Il suo ruolo sulla scena non è mai quello del protagonista. Egli, pur nella consapevolezza di quanto accade, sembra una coscienza condannata a registrare gli eventi, una Cassandra senza memoria, predestinata a rivisitare il tempo attorno a sé, come uno Zeno o un Quasimodo.

Stoner è l'uomo che sceglie il «non essere» Shakespeariano.

Le sue riflessioni sono perle di incontestabile verità. Un assoluto, che plagia il lettore come a volergli trasmettere una consapevolezza che è rinascita.



L'incredibile perfezione dei contenuti, elegantemente disposti con una simmetria che non viene mai meno, una logica perpetua, costante, precisa, mai invasiva. Un tripudio al rifiuto di ogni eccesso stilistico per una narrazione così calma eppure possente, vincolata all'esistenza quale inestricabile dilemma il cui fascino eterno sta nell'osservazione costante.

Edith è stata erroneamente definita un antagonista di Stoner. Ma io ritengo che non si possa qualificare come tale. Lui se ne innamora, ma non è vero amore. In realtà l'uomo di campagna, il giovane rozzo, dalle mani tozze e grandi, che impara la bellezza dell'arte sui libri e diventa cultore della conoscenza attraverso la carta stampata, a mio avviso resta ammaliato dalla figura femminile di questa donna che viene da una buona famiglia. Un essere fragile, delicato, che stimola un desiderio di possesso protezionista. Come se potesse completare, arricchendolo, il bagaglio culturale cui Stoner evidentemente anela. Pur senza saperlo. Per questo la desidera. Lui vuole il balocco, ma non capisce di cosa veramente si tratta perchè non possiede la percezione del futuro, ancorato ad una visione marginale del presente.

Io credo che l'Autore ci riveli questa verità nella parte finale del romanzo quando, con le riflessioni, cerca anche di mettere ordine nelle scelte del protagonista.

Ripropongo quello che vorrei chiamare «elogio all'amore»: «oltre il torpore, l'indifferenza, la rimozione, quell'amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n'era mai andato. In gioventù l'aveva dato liberamente, senza pensarci, l'aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata - quanti anni prima? - da Archer Sloane. L'aveva dato a Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l'aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l'aveva dato ad ogni momento della sua vita, e forse l'aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito, era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell'amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: «Guarda! Sono vivo!».

L'attento lettore e il più saggio commentatore non potrà non riscontrare in questo significativo passaggio la miglior ragione di quanto ho affermato, relativamente a quello che è l'invaghimento che Stoner prova per la desiderata consorte Edith. La quale non gli promette nè passione nè amore, bensì di essere una buona moglie. Lei è una Nora da «Casa di Ibsen», che ha vissuto in un mallo di inossidabile agiatezza, ma anche noncuranza. Nulla sa e nulla conosce del mondo esterno. Lo vuole ardentemente perchè lo immagina. Per questa ragione desidera, quasi idealizza il viaggio in Europa. Il cui sacrificio (rinuncia) per sposare Stoner diventa la miglior scusa per cominciare a odiarlo. Ma quel che Edith realmente affronta non è il marito, bensì il suo corrosivo animo che la consuma dal di dentro. Quel che Edith vuole lo ottiene. La figlia, la casa, la gestione della Famiglia, della stessa prole. E vince anche il confronto su Stoner perchè la sua assenza di reazione è una resa incondizionata. Ma Edith paradossalmente perde. Perchè la vittoria l'ha sconfitta.

Edith è il verosimile paragone della donna moderna che ottiene ciò che vuole, ma così facendo si costruisce la sua infelicità a misura d'uomo, solo che non rendendosene conto continua imperterrita nella sua fallimentare strada e colpevolizza qualcun altro per il suo cronico insuccesso.

Il ruolo della figlia di Stoner, Grace è quello invece di chi, a differenza del padre che si arrende alla vita senza combatterla, accettandola (ma ben inteso non necessariamente nell'ottica di esserne sconfitto), sceglie di interagire con essa.

Stoner non è un padre assente. La sua non è un omissione genitoriale. Semplicemente il suo amore non riesce a prevalere sull'aggressività strategica della moglie che lo isola dalla figlia, cui riserva poi un educazione psicotropa, deviata, monca in termini di significato, priva cioè di quei concetti che non la rendano una sterile bambina - bambola. Un prototipo. Un archetipo argilloso nelle mani della società. Il fatto che Stoner assista quasi impotente a questa trasmutazione non è una sua responsabilità.

Perchè lui, in cuor suo, aveva già compreso quale sarebbe stato il destino, la predestinazione di Grace e come sempre l'aveva accettato. L'Autore ce lo dice con le parole del protagonista che mi piace di citare a sostegno di questa mia ricostruzione: «era, e Stoner lo sapeva bene, forse l'aveva sempre saputo, una di quelle rare e adorabili creature la cui natura morale è così delicata che va sostenuta e curata di continuo, per poter essere soddisfatta. Aliena al Mondo, era costretta a vivere dove non poteva sentirsi a casa; avida di tenerezza e quiete, doveva cibarsi d'indifferenza, insensibilità e rumore. Un indole che, anche nel luogo estraneo e ostile in cui era costretta a vivere, non aveva la ferocia necessaria per combattere la forza brutale che la contrastavano e non poteva che ritirarsi delicatamente nel silenzio e lì farsi piccola piccola, restare immobile ed essere dimenticata».

In questa lucida spiegazione c'è il perchè Stoner abbia lasciato libertà d'azione alla moglie.

Il fatto poi che Grace decida di interagire con la vita è solo il preludio ad una sconfitta che l'Autore decide di impostare come un dramma del grande Shakespeare. La parabola profittatrice e discendente di Grace è un elogio alla drammaturgia inglese. C'è un agonia lenta, quasi irrinunciabile, accettata, vissuta intensamente come la vita.

Ma è questo che molte persone proprio oggi, proprio adesso mentre leggiamo da queste stesse righe, provano. Una sofferenza latente, pervasiva e invasiva della personalità, che matura l'acerbo frutto della disfatta.

Se è vero che l'impegno è ciò che qualifica quel che siamo allora Grace rappresenta tutte quelle persone che non hanno animo per affrontare la vita e quell'oscuro male aggressivo che la società ci ha regalato all'atto di nascita nelle nostre putride, vili, sporche città. Come tali, queste persone impersonano la decadenza. Il loro ritratto è come il celebre urlo di Munch, che nessuno è in grado di udire.

Qualche Autore ha scritto che lo studente svogliato Walker e il suo Professore protettore Lomax sarebbero le nemesi di Stoner. Non sono convinto e anzi dissento.

Credo invece che questi due voluti stereotipi, a tratti estremizzati, siano il veicolo per far capire al lettore quale sia il vero antagonista di Stoner. Esattamente come la guerra è oggi il nemico, per William l'Università, o meglio il mondo che vi ruota intorno e dal quale ne viene attratto come un buco nero gravitazionale, è il suo avversario. Essa Università è la fonte di tutto: la metastasi che ammalia e conduce alla fine Stoner stesso. Consumandolo.

All'inizio del romanzo David Masters traccia tre grandiosi profili degli amici seduti attorno a un tavolo. Giovani, ma non giovanissimi, stavano per entrare nell'alveo o se vogliamo nel mallo dell'Università. Masters identifica subito Stoner come colui che crede nella conoscenza, nel sapere e lo cerca, ma è destinato a smarrirsi fra i polverosi libri. La sua empatia e la simbiosi con l'Università sono da subito evidenziati come un pericolo. Ma Stoner è giovane e non comprende appieno il significato di quelle parole. Però, per tutto il romanzo, l'Autore fa presente al lettore che il protagonista ricorda Masters e quel che gli disse. Sempre. Sopratutto nei momenti più drammatici.

Il lettore più attento comprenderà che il Prof. Lomax è da subito introdotto come qualcuno che rompe la tradizione. Ha un atteggiamento meno formale, più gioviale e viene paragonato ad un artista il cui costrutto antropologico della personalità lo rende in parte una meteora. Un oggetto diverso, distinto da quella omologazione cui sembrano votati i colleghi Professori.

Non è un caso che sia proprio lui a destinare lo studente Walker al corso di Stoner.

Uno studente che personalizza la furbizia tipica di chi vuol far carriera senza faticare. Di chi si ritiene così superiore alle regole da poterle non solo distorcere a suo favore, ma anche plasmarle a propria immagine e somiglianza. Arrivando persino a competere sulla stessa scienza che, in pratica, si rifiuta di studiare.

Ma per farlo ha bisogno del Prof. Lomax.

Questi due soggetti altro non sono che il lottizzato e il lottizzatore.

Espressione di quello che il mondo universitario correva il rischio, poi oggi concretizzatosi, di diventare. Rappresentano cioè il dualismo luciferino di un mentore, protettore, maestro e di un discepolo, apprendista e protetto, da piazzare, strategicamente, tramite il favoritismo, la raccomandazione allo scopo di promuoverne la carriera. Ed è questo che sono moltissime cattedre universitarie: piccoli allevamenti, alveari, Orwelliane accettazioni di un emanazione di potere simile al vassallaggio.

L'esame di Walker è la dimostrazione di tutto questo vista nel suo principio. L'origine del male.

E quel che succede dopo è che Stoner, che capisce quel che sta accadendo, sente il bisogno di impedire che questo male dilaghi all'interno dell'Università che lui considera, come ebbe a dire Masters, un tempio del sapere e della conoscenza. Ma attenzione: Stoner è un antieroe. Lui si oppone, ma non contrasta. E alla fine perde. Inevitabilmente. Sconfitto dalla burocrazia che è l'arma camaleontica e vincente del potere.



Orbene, cosa resta, alla fine, al protagonista? Ce lo dice l'Autore: «Segni dello sconforto: vide uomini per bene sprofondare nella disperazione, perduti insieme ai loro sogni di una vita decente. Li vide camminare senza meta per le strade con gli occhi vuoti come schegge di vetro infranto. Li vide appostarsi davanti alle porte di servizio, con l'amarezza e la dignità di chi si reca al patibolo per elemosinare il pane che gli avrebbe consentito di continuare a elemosinare. E vide che alcuni, un tempo fieri della loro identità, ora lo guardavano con odio e invidia per quel minimo di sicurezza che si era conquistato con il suo impiego fisso presso un istituzione che, in un modo o nell'altro, non sarebbe mai potuta fallire».

Ecco, questa è l'apoteosi.

L'Autore è grandioso nel fotografare la pochezza, la miserabilità, il putridume morale di quei reietti della società che arrivano addirittura a umiliarsi al punto da invidiare Stoner, per quel che essi, nella loro deviata e malforme idea, pensano egli possegga.

L'Università gli ha dato un lavoro dove non si è mai arricchito quanto bastasse per uscire dalla cerchia della povertà. Gli ha offerto la possibilità di coltivare una Famiglia sbagliata fin dal principio. Gli ha portato un amore che ha dovuto abbandonare per via del moralismo dei colleghi e degli studenti. Gli ha posto innanzi un avversario potente quanto il sistema stesso che alla fine lo ha sbaragliato e costretto ad una resa che, per quanto dignitosa, non ha potuto arginare la consapevolezza di un fallimento e di un futuro cupo. Sempre l'Università gli ha fatto credere che la conoscenza e la sapienza lo attendessero per ricompensarlo, ma non le ha mai trovate se non nell'ultimo istante della sua vita. In quell'elogio finale al vecchio e al nuovo. La via di mezzo. Il passaggio.

In quelle ultime meravigliose righe si ha la sensazione che Stoner, osservando i giovani, comprenda che quel che esiste è la ricerca stessa e non l'agognata conclusione. Ecco allora che pare rinunciare al concetto umanistico del bello, dell'utile, del soddisfacente per concepire come l'apprendimento interiore sia una meccanica perpetua di confronto con se stessi. Una pericolosa coperta di Linus la cui devianza consiste proprio nel contenuto protezionistico che questa ti offre. Un protettore letale. Ed il suo monito, il lascito testamentario è forse questo: l'essersi mosso, tutta la vita, all'interno di un limbo che gli ha permesso di capire, ma non di partecipare.

«Stoner» è un capolavoro. Quando un Autore scrive un simile romanzo verrà ricordato per sempre. Non importa quello che ha scritto prima o che scriverà dopo. Rimarrà eternamente legato al concetto di grandezza. Non riesco ad immaginare un lettore che pensi di non leggere questo romanzo.

Irrinunciabile.

Marco Solferini.
per contatti, commenti, suggerire un argomento: 
marcosolferini.pubblicazioni@gmail.com




Nessun commento:

Posta un commento