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Stoner
Autore:John
Williams.
Genere:
drammatico.
William
Stoner è un giovanissimo contadino. Un figlio della terra come
tanti, che nei primi anni del 900 vive nella fattoria di famiglia
dedicandosi ripetitivamente all'attività agricola, insieme con il
padre e la madre.
Gente
semplice il cui destino sembra un elogio alla predestinazione.
Quando
però il padre viene a conoscenza che la vicina Università del
Missouri ha da poco introdotto un corso di laurea in agraria decide
di iscrivere il figlio che ha appena portato a termine gli studi con
risultati discreti.
William
verrà ospitato nella famiglia di un parente e dividerà il proprio
tempo fra le aule, i libri e l'attività manuale di fattore per
mantenersi vitto e alloggio.
Durante
il percorso di studi in agraria accade però che il giovane entra in
contatto con la materia del Prof. Archer Sloane insegnate di
letteratura inglese.
E' un
primo contatto ostico, perchè se da un lato William rimane
affascinato da questi contenuti letterari dall'altro ne riconosce la
difficoltà di apprendimento. Nasce una sorta di innominata quanto
reciproca stima con la materia stessa, veicolata dalla caparbietà
passionale del giovane che lo porterà a stravolgere il piano di
studi.
Di lì
a poco dovrà comunicare ai suoi genitori che il proprio futuro si
svolgerà nell'Università stessa, ove egli decide di percorrere la
strada dell'insegnamento proprio della letteratura inglese.
E sarà
nell'ambito delle frequentazioni universitarie che Stoner conoscerà
Edith la donna che vorrà sposare, poi Katherine Driscoll la donna di
cui si innamorerà, gli amici e colleghi con cui condividerà tutta
la vita professionale e anche i suoi antagonisti.
L'Università
diventerà il centro della vita di William Stoner, fino alla sua
inevitabile morte.
Ambientato
tra il 1910 e gli anni 40, il romanzo propone un tema apparentemente
privo di fascino alcuno.
Si
tratta in buona sostanza di leggere la storia di un uomo che decide
di vivere tutto ciò che rimane della sua esistenza, post
adolescenza, all'interno dell'Università.
Un
professore che da subito sintetizza l'antieroe quanto a volontà di
protagonismo. Il cui unico vero interesse è l'insegnamento,
concepito quale trasmissione della conoscenza. Alternata solo dalla
ricerca scientifica. Finalizzata alla produzione di lavori che siano
una sorta di indagine introspettiva ed esplicativa di quegli Autori e
di quel periodo storico della letteratura medioevale che per pochi
eletti ha molto da condividere con il mondo attuale. E da
insegnargli.
Stoner
è stato definito un personaggio in balia degli eventi. Durante la
lettura del romanzo io l'ho vissuto come una figura a metà tra
l'umano senso di appagamento e l'inconsistente apparenza che si
trascina, a volte arranca, senza concedersi il lusso di fermarsi.
Rimanendo sempre un osservatore ai margini. Il suo ruolo sulla scena
non è mai quello del protagonista. Egli, pur nella consapevolezza di
quanto accade, sembra una coscienza condannata a registrare gli
eventi, una Cassandra senza memoria, predestinata a rivisitare il
tempo attorno a sé, come uno Zeno o un Quasimodo.
Stoner
è l'uomo che sceglie il «non essere» Shakespeariano.
Le sue
riflessioni sono perle di incontestabile verità. Un assoluto, che
plagia il lettore come a volergli trasmettere una consapevolezza che
è rinascita.
L'incredibile
perfezione dei contenuti, elegantemente disposti con una simmetria
che non viene mai meno, una logica perpetua, costante, precisa, mai
invasiva. Un tripudio al rifiuto di ogni eccesso stilistico per una
narrazione così calma eppure possente, vincolata all'esistenza quale
inestricabile dilemma il cui fascino eterno sta nell'osservazione
costante.
Edith
è stata erroneamente definita un antagonista di Stoner. Ma io
ritengo che non si possa qualificare come tale. Lui se ne innamora,
ma non è vero amore. In realtà l'uomo di campagna, il giovane
rozzo, dalle mani tozze e grandi, che impara la bellezza dell'arte
sui libri e diventa cultore della conoscenza attraverso la carta
stampata, a mio avviso resta ammaliato dalla figura femminile di
questa donna che viene da una buona famiglia. Un essere fragile,
delicato, che stimola un desiderio di possesso protezionista. Come se
potesse completare, arricchendolo, il bagaglio culturale cui Stoner
evidentemente anela. Pur senza saperlo. Per questo la desidera. Lui
vuole il balocco, ma non capisce di cosa veramente si tratta perchè
non possiede la percezione del futuro, ancorato ad una visione
marginale del presente.
Io
credo che l'Autore ci riveli questa verità nella parte finale del
romanzo quando, con le riflessioni, cerca anche di mettere ordine
nelle scelte del protagonista.
Ripropongo
quello che vorrei chiamare «elogio all'amore»: «oltre il
torpore, l'indifferenza, la rimozione, quell'amore era ancora lì,
solido e intenso. Non se n'era mai andato. In gioventù l'aveva dato
liberamente, senza pensarci, l'aveva dato a quella conoscenza che gli
era stata rivelata - quanti anni prima? - da Archer Sloane. L'aveva
dato a Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del
matrimonio. E l'aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima
volta. Stranamente, l'aveva dato ad ogni momento della sua vita, e
forse l'aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva
conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello
spirito, era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se
non fossero che la materia, la sostanza specifica dell'amore stesso.
A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente:
«Guarda! Sono vivo!».
L'attento
lettore e il più saggio commentatore non potrà non riscontrare in
questo significativo passaggio la miglior ragione di quanto ho
affermato, relativamente a quello che è l'invaghimento che Stoner
prova per la desiderata consorte Edith. La quale non gli promette nè
passione nè amore, bensì di essere una buona moglie. Lei è una
Nora da «Casa di Ibsen», che ha vissuto in un mallo di inossidabile
agiatezza, ma anche noncuranza. Nulla sa e nulla conosce del mondo
esterno. Lo vuole ardentemente perchè lo immagina. Per questa
ragione desidera, quasi idealizza il viaggio in Europa. Il cui
sacrificio (rinuncia) per sposare Stoner diventa la miglior scusa per
cominciare a odiarlo. Ma quel che Edith realmente affronta non è il
marito, bensì il suo corrosivo animo che la consuma dal di dentro.
Quel che Edith vuole lo ottiene. La figlia, la casa, la gestione
della Famiglia, della stessa prole. E vince anche il confronto su
Stoner perchè la sua assenza di reazione è una resa incondizionata.
Ma Edith paradossalmente perde. Perchè la vittoria l'ha sconfitta.
Edith
è il verosimile paragone della donna moderna che ottiene ciò che
vuole, ma così facendo si costruisce la sua infelicità a misura
d'uomo, solo che non rendendosene conto continua imperterrita nella
sua fallimentare strada e colpevolizza qualcun altro per il suo
cronico insuccesso.
Il
ruolo della figlia di Stoner, Grace è quello invece di chi, a
differenza del padre che si arrende alla vita senza combatterla,
accettandola (ma ben inteso non necessariamente nell'ottica di
esserne sconfitto), sceglie di interagire con essa.
Stoner
non è un padre assente. La sua non è un omissione genitoriale.
Semplicemente il suo amore non riesce a prevalere sull'aggressività
strategica della moglie che lo isola dalla figlia, cui riserva poi un
educazione psicotropa, deviata, monca in termini di significato,
priva cioè di quei concetti che non la rendano una sterile bambina -
bambola. Un prototipo. Un archetipo argilloso nelle mani della
società. Il fatto che Stoner assista quasi impotente a questa
trasmutazione non è una sua responsabilità.
Perchè
lui, in cuor suo, aveva già compreso quale sarebbe stato il destino,
la predestinazione di Grace e come sempre l'aveva accettato. L'Autore
ce lo dice con le parole del protagonista che mi piace di citare a
sostegno di questa mia ricostruzione: «era, e Stoner lo sapeva
bene, forse l'aveva sempre saputo, una di quelle rare e adorabili
creature la cui natura morale è così delicata che va sostenuta e
curata di continuo, per poter essere soddisfatta. Aliena al Mondo,
era costretta a vivere dove non poteva sentirsi a casa; avida di
tenerezza e quiete, doveva cibarsi d'indifferenza, insensibilità e
rumore. Un indole che, anche nel luogo estraneo e ostile in cui era
costretta a vivere, non aveva la ferocia necessaria per combattere la
forza brutale che la contrastavano e non poteva che ritirarsi
delicatamente nel silenzio e lì farsi piccola piccola, restare
immobile ed essere dimenticata».
In
questa lucida spiegazione c'è il perchè Stoner abbia lasciato
libertà d'azione alla moglie.
Il
fatto poi che Grace decida di interagire con la vita è solo il
preludio ad una sconfitta che l'Autore decide di impostare come un
dramma del grande Shakespeare. La parabola profittatrice e
discendente di Grace è un elogio alla drammaturgia inglese. C'è un
agonia lenta, quasi irrinunciabile, accettata, vissuta intensamente
come la vita.
Ma è
questo che molte persone proprio oggi, proprio adesso mentre leggiamo
da queste stesse righe, provano. Una sofferenza latente, pervasiva e
invasiva della personalità, che matura l'acerbo frutto della
disfatta.
Se è
vero che l'impegno è ciò che qualifica quel che siamo allora Grace
rappresenta tutte quelle persone che non hanno animo per affrontare
la vita e quell'oscuro male aggressivo che la società ci ha regalato
all'atto di nascita nelle nostre putride, vili, sporche città. Come
tali, queste persone impersonano la decadenza. Il loro ritratto è
come il celebre urlo di Munch, che nessuno è in grado di udire.
Qualche
Autore ha scritto che lo studente svogliato Walker e il suo
Professore protettore Lomax sarebbero le nemesi di Stoner. Non sono
convinto e anzi dissento.
Credo
invece che questi due voluti stereotipi, a tratti estremizzati, siano
il veicolo per far capire al lettore quale sia il vero antagonista di
Stoner. Esattamente come la guerra è oggi il nemico, per William
l'Università, o meglio il mondo che vi ruota intorno e dal quale ne
viene attratto come un buco nero gravitazionale, è il suo
avversario. Essa Università è la fonte di tutto: la metastasi che
ammalia e conduce alla fine Stoner stesso. Consumandolo.
All'inizio
del romanzo David Masters traccia tre grandiosi profili degli amici
seduti attorno a un tavolo. Giovani, ma non giovanissimi, stavano per
entrare nell'alveo o se vogliamo nel mallo dell'Università. Masters
identifica subito Stoner come colui che crede nella conoscenza, nel
sapere e lo cerca, ma è destinato a smarrirsi fra i polverosi libri.
La sua empatia e la simbiosi con l'Università sono da subito
evidenziati come un pericolo. Ma Stoner è giovane e non comprende
appieno il significato di quelle parole. Però, per tutto il romanzo,
l'Autore fa presente al lettore che il protagonista ricorda Masters e
quel che gli disse. Sempre. Sopratutto nei momenti più drammatici.
Il
lettore più attento comprenderà che il Prof. Lomax è da subito
introdotto come qualcuno che rompe la tradizione. Ha un atteggiamento
meno formale, più gioviale e viene paragonato ad un artista il cui
costrutto antropologico della personalità lo rende in parte una
meteora. Un oggetto diverso, distinto da quella omologazione cui
sembrano votati i colleghi Professori.
Non è
un caso che sia proprio lui a destinare lo studente Walker al corso
di Stoner.
Uno
studente che personalizza la furbizia tipica di chi vuol far carriera
senza faticare. Di chi si ritiene così superiore alle regole da
poterle non solo distorcere a suo favore, ma anche plasmarle a
propria immagine e somiglianza. Arrivando persino a competere sulla
stessa scienza che, in pratica, si rifiuta di studiare.
Ma per
farlo ha bisogno del Prof. Lomax.
Questi
due soggetti altro non sono che il lottizzato e il lottizzatore.
Espressione
di quello che il mondo universitario correva il rischio, poi oggi
concretizzatosi, di diventare. Rappresentano cioè il dualismo
luciferino di un mentore, protettore, maestro e di un discepolo,
apprendista e protetto, da piazzare, strategicamente, tramite il
favoritismo, la raccomandazione allo scopo di promuoverne la
carriera. Ed è questo che sono moltissime cattedre universitarie:
piccoli allevamenti, alveari, Orwelliane accettazioni di un
emanazione di potere simile al vassallaggio.
L'esame
di Walker è la dimostrazione di tutto questo vista nel suo
principio. L'origine del male.
E quel
che succede dopo è che Stoner, che capisce quel che sta accadendo,
sente il bisogno di impedire che questo male dilaghi all'interno
dell'Università che lui considera, come ebbe a dire Masters, un
tempio del sapere e della conoscenza. Ma attenzione: Stoner è un
antieroe. Lui si oppone, ma non contrasta. E alla fine perde.
Inevitabilmente. Sconfitto dalla burocrazia che è l'arma
camaleontica e vincente del potere.
Orbene,
cosa resta, alla fine, al protagonista? Ce lo dice l'Autore: «Segni
dello sconforto: vide uomini per bene sprofondare nella disperazione,
perduti insieme ai loro sogni di una vita decente. Li vide camminare
senza meta per le strade con gli occhi vuoti come schegge di vetro
infranto. Li vide appostarsi davanti alle porte di servizio, con
l'amarezza e la dignità di chi si reca al patibolo per elemosinare
il pane che gli avrebbe consentito di continuare a elemosinare. E
vide che alcuni, un tempo fieri della loro identità, ora lo
guardavano con odio e invidia per quel minimo di sicurezza che si era
conquistato con il suo impiego fisso presso un istituzione che, in un
modo o nell'altro, non sarebbe mai potuta fallire».
Ecco,
questa è l'apoteosi.
L'Autore
è grandioso nel fotografare la pochezza, la miserabilità, il
putridume morale di quei reietti della società che arrivano
addirittura a umiliarsi al punto da invidiare Stoner, per quel che
essi, nella loro deviata e malforme idea, pensano egli possegga.
L'Università
gli ha dato un lavoro dove non si è mai arricchito quanto bastasse
per uscire dalla cerchia della povertà. Gli ha offerto la
possibilità di coltivare una Famiglia sbagliata fin dal principio.
Gli ha portato un amore che ha dovuto abbandonare per via del
moralismo dei colleghi e degli studenti. Gli ha posto innanzi un
avversario potente quanto il sistema stesso che alla fine lo ha
sbaragliato e costretto ad una resa che, per quanto dignitosa, non ha
potuto arginare la consapevolezza di un fallimento e di un futuro
cupo. Sempre l'Università gli ha fatto credere che la conoscenza e
la sapienza lo attendessero per ricompensarlo, ma non le ha mai
trovate se non nell'ultimo istante della sua vita. In quell'elogio
finale al vecchio e al nuovo. La via di mezzo. Il passaggio.
In
quelle ultime meravigliose righe si ha la sensazione che Stoner,
osservando i giovani, comprenda che quel che esiste è la ricerca
stessa e non l'agognata conclusione. Ecco allora che pare rinunciare
al concetto umanistico del bello, dell'utile, del soddisfacente per
concepire come l'apprendimento interiore sia una meccanica perpetua
di confronto con se stessi. Una pericolosa coperta di Linus la cui
devianza consiste proprio nel contenuto protezionistico che questa ti
offre. Un protettore letale. Ed il suo monito, il lascito
testamentario è forse questo: l'essersi mosso, tutta la vita,
all'interno di un limbo che gli ha permesso di capire, ma non di
partecipare.
«Stoner»
è un capolavoro. Quando un Autore scrive un simile romanzo verrà
ricordato per sempre. Non importa quello che ha scritto prima o che
scriverà dopo. Rimarrà eternamente legato al concetto di grandezza.
Non riesco ad immaginare un lettore che pensi di non leggere questo
romanzo.
Irrinunciabile.
Marco
Solferini.
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