martedì 27 gennaio 2015

Jakob il bugiardo

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Jakob il bugiardo

Autore: Jurek Becker.
Genere: drammatico.

Nel 1943 la vita nel ghetto di Lodz in Polonia è un continuo ripetersi di privazioni.

Un insieme di inutili regole dettate per annullare la prospettiva della quotidianità.

Una maligna presenza di vincoli frutto dell'odio e della volontà di annientare l'umano senso di civiltà. La storia ci ha tramandato questa macchia indelebile di quanto vigliacca sia stata la persecuzione contro gli ebrei.

«Il non poter fare» era diventato lo strumento per una persecuzione strisciante, ancora più invasiva della punizione stessa. Perchè onnipresente. In ogni dove, quando e perchè. Nella società di oggi, abituati ad una prospettiva di «fare» rivolta cioè a quello che possiamo e per molti versi vorremmo ottenere è difficile comprendere l'esatto opposto cioè l'infinita serie di preclusioni senza motivo cui erano sottoposti gli ebrei. Tutti. Indistintamente.

Fra le tante leggi della persecuzione c'era il coprifuoco.

Alle 20.00: senza esenzioni.

Jakob però si è attardato e siccome gli è proibito avere un orologio (l'ora appartiene ai tedeschi non agli ebrei nella logica malata del ghetto) si orienta con la luce del sole e con le ombre della notte.

Una guardia però lo sorprende e gli comunica che è troppo tardi per andarsene in giro. Ha sbagliato. E inevitabilmente dev'essere punito. Ben inteso, per questo errore potrebbe essere anche ucciso. Ma la guardia preferisce comandargli, forse per schernirlo, di essere lui stesso a domandare la punizione, pregando cioè l'ufficiale in comando di applicargliela dopo aver ammesso la sua trasgressione.

Pertanto Jakob si reca nell'ufficio dove rimane il Comando e qui, mentre cerca la persona cui riferire i suoi tristi ordini, casualmente apprende un dispaccio radio sull'avanzata dell'esercito sovietico.

Le informazioni erano naturalmente proibite agli ebrei. La loro esistenza del resto era considerata solo una parentesi in attesa della «soluzione finale».

Il significato era semplice: nessuna prospettiva, nessuna aspettativa.

Jakob però ha un intuizione. E quando apprende di essere stato oggetto di una semplice burla, un malsano umorismo in nero, per quanto riguarda l'orario non essendo ancora arrivate le fatidiche 20.00 della sera nel mentre che si affretta al ritorno a casa riflette su quell'informazione.

Sul suo valore, oltre il significato della notizia in sè.

Comincia perciò a raccontare una storia ai suoi compagni di sventura, nel ghetto, nel microcosmo della non vita.. una storia basata sull'idea di possedere quelle informazioni proibite. Grazie ad una radio. Un mezzo di comunicazione. Perchè la conoscenza è più che potere. E' uno squarcio che perfora il mallo della bugia nazista.

Il paradigma che annida nella scelta di Jakob è sostanzialmente quello che è meglio una bugia che alimenta la speranza piuttosto di una verità che la distrugge.

Jakob quindi diventa portatore di speranza.

Nel suo piccolo, in quel girone dell'inferno dantesco fatto di ossessioni frutto dell'iracondia volontà di annichilimento. In un ghetto che paradossalmente e spudoratamente si trova non lontano da chi, all'opposto degli ebrei, ha il diritto di nascita di poter vivere. Jakob crea un alternativa. E il fuoco della speranza divampa. Pur nella membra stanche di chi non ha da mangiare o da bere, di chi non conosce i principi più basilari dell'assistenza sanitaria o non ha più il diritto alla proprietà privata, la speranza divampa.

Grazie alla possente consapevolezza che c'è un mondo la fuori che reagisce alla ragionata follia nazista.

Ed esiste quindi la possibilità che la parola fine si avvicini ben oltre il desiderio sussurrato da menti ancora tormentate, vessate, impaurite, incatenate all'inferno costruito dagli uomini su misura per testimoniare quanto la razza umana sia impietosamente colpevole di un crimine senza eguali.

Ho letto «Jakob il bugiardo» molti anni fa e ho ritenuto di volerlo recensire per la sua intima semplicità nel riportare concetti di così profonda complessità attraverso una storia vera e commovente.

Non sono mai stato un insegnante, ma se lo fossi stato, in particolare di italiano o di storia per certo questo testo lo avrei consigliato ai miei studenti.

Stimolante per le definizioni, a tratti quasi eclettiche, degli scenari che sembrano un pò fiabeschi con uno stile dark tipico dei fratelli Grimm o di Conrad nel rendere quest'atmosfera di pesantezza impenitente che poi si traduce in un pericolo immanente. Nel contempo il narratore, che è terzo, cioè colui che ha conosciuto Jakob e ne riporta le gesta, dipinge una realtà quasi al contrario, capovolta, un mondo di Escher se vogliamo, dove ci si può addirittura uccidere pur di non partecipare a questo circo degli orrori.

E questi toccanti ricordi, sviscerati attraverso il paragone con ciò che la realtà ambientale, la città stessa, era prima della trasmutazione nel ghetto sembrano quel tocco di magia nera che manca al teatro degli eventi dove va in scena la disperazione. Ma anche la voglia di riscatto.

Ed è questo il punto straordinario dell'esposizione, perchè da una prima fase narrativa in cui tutto sembra avvolto dal decadimento quasi come la corrente letteraria dell'800 c'è una sorta di riscatto che parte dall'eroe più improbabile. L'uomo comune.

Un coraggio eroico che da un gesto viene a delineare il fallimento della macchina di morte nazista capace di uccidere solo il corpo, ma non la mente.

Jakob vince perchè la sua sottomissione è fallita.

Poca importanza ha la punizione.

Le implicazioni di un sotterfugio hanno abbattuto la matematica efficienza della persecuzione. Soggiogata dalla strategia vincente del baro che inganna con un prestigio la realtà circostante vincendo su tutte quelle meticolose privazioni che diventano un banale quanto temporaneo atto di umana pazzia.

Il finale è visionario. Il romanzo comincia con le considerazioni sugli alberi. Che nel ghetto sono proibiti e sulla malinconia che si prova a non averli più accanto, a distanza di vista. Perchè il verde era speranza di libertà contro il grigiore dell'appiattimento tipico sinonimo di tristezza. Le loro fronde che non dispensano pila quiete dell'ombra, ma che alla fine ritornano. In un viaggio. A bordo di un treno che sfreccia verso il destino. Lasciando che a bordo qualcuno possa rivedere quegli alberi. Forse per un ultima volta. Tanti commentatori hanno ipotizzato che il viaggio finale altro non sia che il trasferimento sui vagoni della morte dal ghetto al campo di concentramento, ma non pochi hanno ipotizzato che in realtà fosse semplicemente la fine preannunciata di una situazione che è come l'evento compiuto. Il punto al termine della frase. Oltre la quale ci sono di nuovo gli alberi.

«Jakob il bugiardo» è un testo che unisce originalità narrativa ad un pregevole espediente creativo affrontando un tema difficile cui noi oggi siamo orgogliosamente chiamati al ricordo. Il libro è testimone più che legittimo di una storia vera a vantaggio dei lettori che nulla tolga al singolo, nell'intima conoscenza personale, e nel contempo si riversa silenziosamente sulla collettività.

Perchè è così che dal ricordo delle tante storie della Shoah nasce la riflessione. Nel silenzio, come la bugia di Jakob. E forse è un bene. Forse ci salverà, permettendoci di guardare oltre ciò che vogliono mostrarci tra gli echi del passato e gli spettri del presente.

Consigliato a tutti (specialmente a chi, fa del negazionismo plausibile una stravagante osservanza e dimentica che si può solo scegliere di dimenticare non far finta di non ricordare).

Marco Solferini.
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