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La rivista culturale: "Il Salotto degli Autori" ( http://www.ilsalottodegliautori.it ) edita dall'Associazione letteraria "Carta e Penna"
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Cio
che inferno non è.
Autore:
Alessandro D'Avenia
Genere:
Drammatico.
Brancaccio
è un quartiere di Palermo. Uno dei più difficoltosi. Siamo negli
anni 90 e le difficoltà spesso hanno il minimo comune denominatore
dell'antistato per eccellenza. La mafia. Quella che detta legge senza
comandare. Che è presente anche quando non c'è. Un sistema che
rassomiglia ad una filosofia di pensiero. Un modo di confrontarsi con
la realtà circostante e con le aspettative di chi cresce lì. A
Brancaccio.
C'è
il mare a Palermo. Dopo la scuola, quando l'adolescenza è così
spensierata da sembrare un fiume in piena, pronto a straripare alla
prima occasione, gli studenti lo guardano sognando con gli occhi di
Ulisse il loro viaggio oltre le Colonne d'Ercole. Sotto il sole
cocente. Nell'attesa di quel divertimento fanciullesco, troppo
giovane per conoscere la vita, ma anche già cresciuto abbastanza per
non aspettarsi qualcosa da essa.
In
particolare, l'amore.
Anche
se a volte è solo un attrazione insopprimibile. Un istinto di
sopravvivenza primordiale ereditato per diritto di nascita. Come
quello di chi a Brancaccio non c'è solo cresciuto, ma ne ha fatto la
sua casa, il suo luogo di lavoro. E fra costoro c'è un cacciatore
che ha scelto di entrare a far parte del sistema mafioso. Di essere
un killer, un sicario.
Ma
non è il solo ad aver fatto una scelta. Tra le anime di quel luogo
perso in questa Sicilia così dimenticata c'è anche don Pino Puglisi
che ha deciso di battersi per il futuro dei giovanissimi di quel
posto dimenticato da tutti, ma non da Dio.
Don
Pino combatte una guerra solitaria, lontana dalle istituzioni. A
contatto con la diffidenza delle famiglie. Con gli sguardi e i
segnali, piccoli o grandi, di un pericolo costante. La sua scelta, la
sua lotta è far si che una cultura con la maiuscola spinga le menti
di coloro che sono le riserve di una manovalanza mafiosa a scegliere.
Perchè
dove non c'è scelta, non c'è libertà.
Salvare
una vita significa salvare il mondo. Significa cambiarlo. E per la
mafia il nemico più grande è anche il suo principale alleato: la
mentalità del paese, del quartiere, della città. Un virus dilagante
che si chiama omertà e che permette ai mafiosi di vivere con la
gente, tra la gente, illudendoli che essi siano lì per la gente.
Se
rompi quel filo il gioco mafioso finisce e tutto può ricominciare.
E
la cultura è il vero grande fratello del romanzo.
Un
elogio costante all'insopprimibile possanza e prepotenza delle
parole. Questi piccoli ingranaggi perfetti che se usati in modo
preciso rappresentano un arma eterna di verità e speranza.
«Sono
convinto che ogni anima sia fatta di almeno cinque parole, le cinque
che preferiscono. Le tue cinque parole sono quelle che dicono come
respiri, e da come respiri dipende il resto. Le mie sono: vento,
luce, ragazza, silenziosamente e benchè. Ognuno dovrebbe scrivere
una poesia con le sue cinque parole, giusto per ormeggiare l'anima in
un porto sicuro». Tratto da «Ciò che inferno non è» di
Alessandro d'Avena, ed. Mondadori.
La
cultura la incontriamo anche nelle parole e nei pensieri del giovane
Federico che la scuola l'ha appena conclusa e vive l'attesa di quella
gioia estiva idealizzata. Un ragazzo atipico perchè dimostra di
possedere un affetto tutto personale per la cultura classica. Una
tenerezza quasi romantica per quei pensatori del passato che furono
poeti, scrittori, uomini di lettere e di filosofia.
Sogna
di viaggiare, di rassomigliare a suo fratello che ha scelto la
scienza medica, ma nel contempo deve imparare cosa significa battersi
per cambiare un presente che nega il futuro a tanti. Troppi. Deve
imparare a conoscere l'opera di don Pino.
Scenario
diviso a metà, tra l'ambiente di un Italia che è stata, nella sua
storia ancora recente e quella che potrebbe diventare.
«Anche
lui è andato a scuola fino alla quinta elementare, poi la scuola è
diventata la strada. Quello che si vuole basta prenderselo con le
mani, o con gli artigli che ti spuntano presto se non arrivi al pezzo
di carne che ti spetta, come succede ai lupi. A furia di afferrare,
gli artigli spuntano per forza». Tratto da «Ciò che inferno
non è» di Alessandro d'Avena, ed. Mondadori.
L'Autore
è abilissimo nel costruire un filo conduttore che spalma questo
paradigma di pagina in pagina raccontando il giusto, cioè che
sapienza e buon senso vuole sia misurato, grazie a dosi di conoscenza
somministrate con costanza e nel contempo con intelligente
esposizione.
Sullo
sfondo si delinea la concettualità di ciò che è inferno. La
sofferenza, il patimento, la negazione, l'abnegazione, la
sopportazione, la costrizione e via discorrendo. Ogni volta che nel
labirinto delle considerazioni, tra le opportunità e le scelte,
l'uomo arriva al punto di non ritorno l'inferno è dietro l'angolo.
Un assoluto immutabile, una costante infinita che non cambia bensì
avvolge, riduce, assorbe tutto ciò che gli sta intorno. Un buco nero
che può scaturire da tante situazioni.
D'Avena
si dilunga molto sull'amore per la cultura classica esternando spesso
le proprie personali convinzioni su alcune grandi firme che tutti noi
abbiamo conosciuto sui banchi di scuola.
«Il
sonno mi piomba addosso, liberandomi da me stesso. mi sveglio coi
vestiti addosso, ed è notte ormai. Ho sognato il sorriso di don
Pino. non ricordo mai i sogni, ma questo dettaglio lo ricordo e
Flaubert diceva che Dio è nei dettagli. Chissà poi se è vero.
Quando l'infinito divora le pareti della mia stanza, vorrei saper
dormire a comando. E' l'unico modo di scappare da se stessi».
Tratto da «Ciò che inferno non è» di Alessandro d'Avena, ed.
Mondadori.
Una
sofisticazione quest'ultima a ben guardare rinunciabile che tuttavia
egli propone con docente maestria in quella sua arte narrativa dai
caratteri epistolari e spesso fatalisti, costruita su di un connubio
di metafore ed allegorie.
Dipinge
i contorni dello scenario, evidentemente non fidandosi troppo
dell'immaginazione del lettore e poi, come un puzzle partito dagli
angoli, comincia ad approfondirne i contenuti rivelandoli in capitoli
brevi, a volte brevissimi. Una buona disciplina narrativa basata su
di un discreto ordine che tuttavia a volte risulta appesantita dalla
sua volontà di dimostrare la propria bravura letteraria.
Questo
insieme di pensieri e parole il cui costrutto logico è climax di
pregevolezza a volte diventa anche un vortice insistito che
rassomiglia ad una sfida con se stesso. Come se tutto sommato
preferisse aggiungere piuttosto che ridimensionare. Ecco quindi che
il medesimo concetto nell'identico scenario lo ritroviamo a più
tratti e non sempre sembra utile se non per donare qualche riga da
conservare come si fa con gli aforismi dei celebri letterati.
L'autocelebrazione
è un limite di questo pur straordinario Autore.
Bisogna
che si focalizzi maggiormente su di una dinamica espositiva più
concentrata sulla trama e come tale orchestrata in un crescendo
rossiniano di efficacia e coinvolgimento spinto verso un diverso
climax. Avente cioè un significato ultimo di una narrazione che
evidentemente vuole assurgere al ruolo di denuncia sociale attraverso
una ricostruzione storica di quell'attualità che fu e che non può,
malgrado il verbo, trapassare nella memoria.
Ottimi
i dialoghi che diventano introspettivi con un immediatezza
sicuramente pregevole che attribuisce maggior spessore all'effetto
visivo della scena e la rende facilmente paragonabile ad una
sceneggiatura per tempistica ed argomenti. L'Autore infatti è
bravissimo nell'indirizzare l'empatia di pensiero che stabilisce con
il lettore in modo da risparmiargli inutili sofisticazioni o patemi
d'animo. Nel contempo il dettaglio dei personaggi paradossalmente
fuoriesce dal dialogo e in modo paratattico.
Questo
stile di scrittura è sempre più frequente. Sopratutto negli
scrittori nati nel biennio 70 - 80 (più gli anni 70 in verità) e
non mi risulta abbia un nome da catalogo.
In
buona sostanza riesce a coniugare quella necessità di sentire su di
sè il pensiero prolisso della focalizzazione oggettiva trapassandolo
poi con una paratattica intuitiva e logica individualizzata e
ricamata sui dialoghi. Questa spersonalizzazione crea un apparente
sdoppiamento come se ci fossero due culture a voler parlare di sè.
Quella del narratore, dotta e ricca di esperienza che però vive
all'esterno della storia e quella dei protagonisti, che son
personaggi in cerca d'autore, con un impostazione più vignettista
che non a caso diventa facilmente esportabile nel cinema che fa,
usualmente, di necessità virtù.
Care
Case Editrici, il risultato è uno stile che piace agli adulti e
interessa ai giovani. Un buon punto di partenza per il successo
contemporaneo di uno scrittore. Per questa ragione ritengo che questo
stile narrativo (non lo qualifico come cifra) andrebbe più studiato
e maggiormente «inserito» nell'attività di «cultural writing»
cui oggi sono fermamente convinto l'editing si debba maggiormente
aprire.
Anche
perchè le vendite sembrano premiarlo.
«Ciò
che inferno non è» è l'ultimo intenso romanzo di Alessandro
D'Avena un Autore tra i più interessanti di recente affermazione. Un
affascinante spaccato di storia Italiana descritto con sapiente e
appassionata maestria. Da un artista della scrittura che regala al
lettore frasi ad affetto cariche di vita ben oltre la carta stampata.
Consigliato.
Marco
Solferini
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