venerdì 9 gennaio 2015

Ciò che inferno non è

Un ringraziamento particolare agli sponsor: 

Libreria - Galleria
IL SECONDO RINASCIMENTO
Via Porta Nova 1/A (ang. via C. Battisti) - Bologna
Il luogo ideale dove trovare i Tuoi Libri
http://www.ilsecondorinascimento.it/
 ***
Palestra Performance 
Centro estetico e fitness.. nel cuore di Bologna
* * *
La rivista culturale: "Il Salotto degli Autori" ( http://www.ilsalottodegliautori.it ) edita dall'Associazione letteraria "Carta e Penna" 
* * *
Cio che inferno non è.

Autore: Alessandro D'Avenia
Genere: Drammatico.

Brancaccio è un quartiere di Palermo. Uno dei più difficoltosi. Siamo negli anni 90 e le difficoltà spesso hanno il minimo comune denominatore dell'antistato per eccellenza. La mafia. Quella che detta legge senza comandare. Che è presente anche quando non c'è. Un sistema che rassomiglia ad una filosofia di pensiero. Un modo di confrontarsi con la realtà circostante e con le aspettative di chi cresce lì. A Brancaccio.

C'è il mare a Palermo. Dopo la scuola, quando l'adolescenza è così spensierata da sembrare un fiume in piena, pronto a straripare alla prima occasione, gli studenti lo guardano sognando con gli occhi di Ulisse il loro viaggio oltre le Colonne d'Ercole. Sotto il sole cocente. Nell'attesa di quel divertimento fanciullesco, troppo giovane per conoscere la vita, ma anche già cresciuto abbastanza per non aspettarsi qualcosa da essa.

In particolare, l'amore.

Anche se a volte è solo un attrazione insopprimibile. Un istinto di sopravvivenza primordiale ereditato per diritto di nascita. Come quello di chi a Brancaccio non c'è solo cresciuto, ma ne ha fatto la sua casa, il suo luogo di lavoro. E fra costoro c'è un cacciatore che ha scelto di entrare a far parte del sistema mafioso. Di essere un killer, un sicario.

Ma non è il solo ad aver fatto una scelta. Tra le anime di quel luogo perso in questa Sicilia così dimenticata c'è anche don Pino Puglisi che ha deciso di battersi per il futuro dei giovanissimi di quel posto dimenticato da tutti, ma non da Dio.

Don Pino combatte una guerra solitaria, lontana dalle istituzioni. A contatto con la diffidenza delle famiglie. Con gli sguardi e i segnali, piccoli o grandi, di un pericolo costante. La sua scelta, la sua lotta è far si che una cultura con la maiuscola spinga le menti di coloro che sono le riserve di una manovalanza mafiosa a scegliere.

Perchè dove non c'è scelta, non c'è libertà.

Salvare una vita significa salvare il mondo. Significa cambiarlo. E per la mafia il nemico più grande è anche il suo principale alleato: la mentalità del paese, del quartiere, della città. Un virus dilagante che si chiama omertà e che permette ai mafiosi di vivere con la gente, tra la gente, illudendoli che essi siano lì per la gente.

Se rompi quel filo il gioco mafioso finisce e tutto può ricominciare.

E la cultura è il vero grande fratello del romanzo.

Un elogio costante all'insopprimibile possanza e prepotenza delle parole. Questi piccoli ingranaggi perfetti che se usati in modo preciso rappresentano un arma eterna di verità e speranza.

«Sono convinto che ogni anima sia fatta di almeno cinque parole, le cinque che preferiscono. Le tue cinque parole sono quelle che dicono come respiri, e da come respiri dipende il resto. Le mie sono: vento, luce, ragazza, silenziosamente e benchè. Ognuno dovrebbe scrivere una poesia con le sue cinque parole, giusto per ormeggiare l'anima in un porto sicuro». Tratto da «Ciò che inferno non è» di Alessandro d'Avena, ed. Mondadori.

La cultura la incontriamo anche nelle parole e nei pensieri del giovane Federico che la scuola l'ha appena conclusa e vive l'attesa di quella gioia estiva idealizzata. Un ragazzo atipico perchè dimostra di possedere un affetto tutto personale per la cultura classica. Una tenerezza quasi romantica per quei pensatori del passato che furono poeti, scrittori, uomini di lettere e di filosofia.

Sogna di viaggiare, di rassomigliare a suo fratello che ha scelto la scienza medica, ma nel contempo deve imparare cosa significa battersi per cambiare un presente che nega il futuro a tanti. Troppi. Deve imparare a conoscere l'opera di don Pino.

Scenario diviso a metà, tra l'ambiente di un Italia che è stata, nella sua storia ancora recente e quella che potrebbe diventare.

«Anche lui è andato a scuola fino alla quinta elementare, poi la scuola è diventata la strada. Quello che si vuole basta prenderselo con le mani, o con gli artigli che ti spuntano presto se non arrivi al pezzo di carne che ti spetta, come succede ai lupi. A furia di afferrare, gli artigli spuntano per forza». Tratto da «Ciò che inferno non è» di Alessandro d'Avena, ed. Mondadori.

L'Autore è abilissimo nel costruire un filo conduttore che spalma questo paradigma di pagina in pagina raccontando il giusto, cioè che sapienza e buon senso vuole sia misurato, grazie a dosi di conoscenza somministrate con costanza e nel contempo con intelligente esposizione.

Sullo sfondo si delinea la concettualità di ciò che è inferno. La sofferenza, il patimento, la negazione, l'abnegazione, la sopportazione, la costrizione e via discorrendo. Ogni volta che nel labirinto delle considerazioni, tra le opportunità e le scelte, l'uomo arriva al punto di non ritorno l'inferno è dietro l'angolo. Un assoluto immutabile, una costante infinita che non cambia bensì avvolge, riduce, assorbe tutto ciò che gli sta intorno. Un buco nero che può scaturire da tante situazioni.

D'Avena si dilunga molto sull'amore per la cultura classica esternando spesso le proprie personali convinzioni su alcune grandi firme che tutti noi abbiamo conosciuto sui banchi di scuola.

«Il sonno mi piomba addosso, liberandomi da me stesso. mi sveglio coi vestiti addosso, ed è notte ormai. Ho sognato il sorriso di don Pino. non ricordo mai i sogni, ma questo dettaglio lo ricordo e Flaubert diceva che Dio è nei dettagli. Chissà poi se è vero. Quando l'infinito divora le pareti della mia stanza, vorrei saper dormire a comando. E' l'unico modo di scappare da se stessi». Tratto da «Ciò che inferno non è» di Alessandro d'Avena, ed. Mondadori.

Una sofisticazione quest'ultima a ben guardare rinunciabile che tuttavia egli propone con docente maestria in quella sua arte narrativa dai caratteri epistolari e spesso fatalisti, costruita su di un connubio di metafore ed allegorie.

Dipinge i contorni dello scenario, evidentemente non fidandosi troppo dell'immaginazione del lettore e poi, come un puzzle partito dagli angoli, comincia ad approfondirne i contenuti rivelandoli in capitoli brevi, a volte brevissimi. Una buona disciplina narrativa basata su di un discreto ordine che tuttavia a volte risulta appesantita dalla sua volontà di dimostrare la propria bravura letteraria.

Questo insieme di pensieri e parole il cui costrutto logico è climax di pregevolezza a volte diventa anche un vortice insistito che rassomiglia ad una sfida con se stesso. Come se tutto sommato preferisse aggiungere piuttosto che ridimensionare. Ecco quindi che il medesimo concetto nell'identico scenario lo ritroviamo a più tratti e non sempre sembra utile se non per donare qualche riga da conservare come si fa con gli aforismi dei celebri letterati.

L'autocelebrazione è un limite di questo pur straordinario Autore.

Bisogna che si focalizzi maggiormente su di una dinamica espositiva più concentrata sulla trama e come tale orchestrata in un crescendo rossiniano di efficacia e coinvolgimento spinto verso un diverso climax. Avente cioè un significato ultimo di una narrazione che evidentemente vuole assurgere al ruolo di denuncia sociale attraverso una ricostruzione storica di quell'attualità che fu e che non può, malgrado il verbo, trapassare nella memoria.

Ottimi i dialoghi che diventano introspettivi con un immediatezza sicuramente pregevole che attribuisce maggior spessore all'effetto visivo della scena e la rende facilmente paragonabile ad una sceneggiatura per tempistica ed argomenti. L'Autore infatti è bravissimo nell'indirizzare l'empatia di pensiero che stabilisce con il lettore in modo da risparmiargli inutili sofisticazioni o patemi d'animo. Nel contempo il dettaglio dei personaggi paradossalmente fuoriesce dal dialogo e in modo paratattico.

Questo stile di scrittura è sempre più frequente. Sopratutto negli scrittori nati nel biennio 70 - 80 (più gli anni 70 in verità) e non mi risulta abbia un nome da catalogo.

In buona sostanza riesce a coniugare quella necessità di sentire su di sè il pensiero prolisso della focalizzazione oggettiva trapassandolo poi con una paratattica intuitiva e logica individualizzata e ricamata sui dialoghi. Questa spersonalizzazione crea un apparente sdoppiamento come se ci fossero due culture a voler parlare di sè. Quella del narratore, dotta e ricca di esperienza che però vive all'esterno della storia e quella dei protagonisti, che son personaggi in cerca d'autore, con un impostazione più vignettista che non a caso diventa facilmente esportabile nel cinema che fa, usualmente, di necessità virtù.

Care Case Editrici, il risultato è uno stile che piace agli adulti e interessa ai giovani. Un buon punto di partenza per il successo contemporaneo di uno scrittore. Per questa ragione ritengo che questo stile narrativo (non lo qualifico come cifra) andrebbe più studiato e maggiormente «inserito» nell'attività di «cultural writing» cui oggi sono fermamente convinto l'editing si debba maggiormente aprire.

Anche perchè le vendite sembrano premiarlo.

«Ciò che inferno non è» è l'ultimo intenso romanzo di Alessandro D'Avena un Autore tra i più interessanti di recente affermazione. Un affascinante spaccato di storia Italiana descritto con sapiente e appassionata maestria. Da un artista della scrittura che regala al lettore frasi ad affetto cariche di vita ben oltre la carta stampata.

Consigliato.

Marco Solferini
puoi trovarmi anche su:


Nessun commento:

Posta un commento