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Il libro dei Baltimore
Autore: Joel Dicker
Genere: drammatico,
sentimentale.
L'Autore ci presenta una
una trama pulita e lineare. La storia di tre giovani. Da ragazzini a
uomini maturi. Adulti con un passato in comune.
Una vicenda famigliare
giocata su tre fronti narrativi.
Il passato, che comincia
dall'adolescenza e prosegue nella maturità di quella che è la “Gang
dei Baltimore”. Il presente del 2012. E un intermezzo, sei anni
prima, che sembra una sorta di epilogo della più completa vicenda.
Prima di prodursi nel
filone centrale cioè quello della storia dei giovani Goldman, Marcus
di Montclair e i suoi cugini Woody e Hillel di Baltimore, l'Autore
fornisce un approfondita analisi del sentore percepito dal
protagonista, Marcus, avuto riguardo ai suoi ricordi.
In pratica definisce
quella che è l'enfasi del paragone che via via diventerà una
marginalizzazione che Marcus, il protagonista, ha sentito nella
giovinezza relativamente al ramo ricco della Famiglia cui
appartengono i cugini di Baltimore.
Il lettore quindi viene
presentato alla storia, indottrinato al punto di vista che sarà
quello del narratore in prima persona e pertanto acquisisce le
movenze essenziali per spaziare nell'indagine del passato.
Quel che infatti emerge
non è esattamente una storia bensì un insieme di rimembranze a mò
di episodi tra loro collegati ma a ben guardare ciascuno autonomo.
Dotato cioè di una propria categorizzazione. Troviamo infatti la
conoscenza dell'amico portatore di handicap, il bullismo, l'amore
adolescenziale, l'ambizione, l'invidia, il realismo.
Sono episodi inseriti
nello scheletro della narrazione di base.
Non penso che si possa
parlare di epopea dei Baltimore in quanto il testo pur se scritto in
maniera semplice, visiva e di facile percezione manca di un livello
introspettivo che lo elevi a opera letteraria per qualità superiore.
I capitoli episodici sono accattivanti ma anche molto scontati.
In ogni caso la
centralità dei protagonisti è influenzata dal loro essere degli
stereotipi dichiaratamente recitati fino in fondo. La personalità di
ciascuno ne risente. Capisco la necessità di inserire la forza in
persona dell'atleta ragazzo difficile dal passato “povero”
adottato dai Baltimore (Woody) e un suo paradossale opposto
rivisitato nella sapienza dell'intellettuale dialetticamente abile
con le parole, ma fisicamente debole (Hillel).
Tuttavia un individuo non
è “solo” questo. Può esserci un tratto saliente del carattere
ma non può esserci solo quello.
Invece in questo romanzo
ci sono centinaia di pagine dove viene riciclato unicamente questo
aspetto e per effetto il lettore sa già cosa aspettarsi. Cambia il
contesto, anche in ragione all'età dei protagonisti, ma la tecnica
rimane la medesima e il risultato anche. Manca, appunto, il salto di
qualità che non arriva dopo le prime 100 pagine come pure fino alla
fine.
Adattamento non è
evoluzione. Il narratore sapiente, lo scrittore di talento ben
conosce la differenza e organizza il “montaggio” delle proprie
disquisizioni a mò d'esempio in virtù di quella che è lo scheletro
narrativo. Altrimenti il risultato è un limbo. Come in questo caso.
Il protagonista non è
altro che l'unico “umano” in quanto esponendo con manierismo introspettivo il proprio punto di vista è colui che residua a misura d'uomo. Nel
bene e nel male. Il rapporto di empatia si sviluppa non per
ammirazione ma per assimilazione cioè per una simpatia verso l'unico
che non è uno stereotipo.
Purtroppo dal punto di
vista della focalizzazione soggettiva pretendo di più. Potrei
soffermarmi sui grandi classici della letteratura dell'est e sulle
profondità cognitive di un espressione più armonica e generosa
dell'essere umano concepito, destrutturato, rinato e riproposto al
lettore, ma pur non ambendo a toccare queste cime devo anche, in
quanto lettore, celebrare la mia personale ricerca introspettiva che
“chiede e pretende” da un Autore qualcosa di più.
L'amore ha un ruolo
essenziale nello sviluppo della storia. Ma il personaggio femminile,
Alexandra, è un disastroso esempio “uso e getta”. Del tutto
funzionale ai singoli episodi la sua indole è martirizzata
dall'essere l'oggetto del desiderio di tutti i protagonisti mentre
lei è un involucro vuoto, per niente approfondito. Una femminilità
ridotta alla sessualità. Alla bellezza che abbaglia e coinvolge ma
senza un anima di fondo di cui effettivamente innamorarsi.
L'insieme di questo
romanzo è una serie di tentativi a mio parere falliti. La figura
dello zia Saul che rivela fragilità, debolezze e incongruenze di
fondo fino a portare a delle rivelazioni anche poco probabili sulla
storia della Famiglia e sull'episodio definito “la tragedia” ne è
un esempio abbastanza evidente. Un catalizzatore che serve per
“spiegare” gli eventi e che in modo argilloso viene usato a
questo solo scopo.
Con tecnica pirandelliana
lo scrittore introduce l'evento “tragedia” sempre prossimo fin
dall'inizio del romanzo e teoricamente rivelatore che poi ci viene
raccontato dopo centinaia di pagine come se fosse l'atteso climax
narrativo attorno al quale la cifra letteraria dell'Autore avrebbe
dovuto costruire personaggi il cui spessore sarebbe dovuto essere
funzionale proprio allo svolgimento finale. Un metodo di costruire la
narrazione che coinvolge e crea aspettativa. Molto ambizioso e
difficilissimo da realizzare.
Il risultato è scadente.
Per nulla credibile tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle
scelte comportamentali. Il lettore si troverà a storcere il naso
patendo un senso di angoscia che non trova alcun riscontro
risolvendosi in un classico amaro in bocca.
“Il libro dei
Baltimore” è stato per me un romanzo mediocre, a tratti scadente. Mi è
piaciuto poco se non addirittura per niente laddove ho faticato a
salvare singole parti anche nell'ottica di sfoltire qualche centinaio
di pagine per individuare un corpus narrativo di miglior pregio.
Lo sconsiglio.
Avv. Marco Solferini
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